Sulla cittadinanza Riccardi commette il solito errore ‘culturale’ della sinistra

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Sulla cittadinanza Riccardi commette il solito errore ‘culturale’ della sinistra

29 Febbraio 2012

Di questi tempi andare (o venir trascinati) a un evento di “Roma Incontra”, versione capitolina di “Cortina Incontra”, è come ritrovarsi in un circolo di lealisti napoleonici dopo il 1815. Sarà perché spesso gli incontri si tengono dentro l’involucro dell’Ara Pacis di Richard Meier, fatto sta che ci si ritrova parte di una certa Roma veltroniana e civile – del centro e non solo – quella che giustamente “cede il posto alle vecchiette sull’autobus”. Se si ha un penchant culturale e politico del genere, l’evento che ieri si è consumato in una saletta del discutibile “involucro” meieriano, era uno di quelli da non perdere. Parlavano il ministro per la cooperazione e l’integrazione Andrea Riccardi, arcinoto fondatore della Comunità di Sant’Egidio e Dominique La Pierre, l’ex- giornalista di ‘Paris Match’ e autore del bestseller  “La Città della Gioia”, oggi filantropo in terra indiana.

Entrambi nel ‘business della povertà’ (cinico mondo), entrambi sul palco, entrambi presi in una tenzone a chi ha la buona coscienza più lunga. Il tutto moderato da un Maurizio Mannoni con gamba accavallata e pantalone senza risvolto. Tralasciando per un attimo il nervosismo che può generare la vista prolungata della bocca del ministro Riccardi – “quella di un fumetto giapponese”, dice qualcuno -, e le sparate in italo-spagnolo-francese di Lapierre in doppio-petto e cravatta dorata – “i francesi come i belgi hanno un gusto piuttosto discutibile a volte”, dice qualcun altro – andare a questo ‘incontro’ ha avuto almeno il merito d’offrire ai posteri il neo-logismo più incomprensibile e astruso mai udito in tempi ‘montiani’: lo ius culturae. I due intervistati parlano di poveri, di ultimi, di emigranti, e il passo è breve per finire sulla cittadinanza agli immigrati. Se questo è uno dei temi e sul palco c’è il ministro per “l’integrazione”, bisogna aprire bene le orecchie, a maggior ragione in tempi di norme per la semplificazione, di doppi cognomi e di nomi stranieri che vengono ‘allegramente’ inseriti nelle storia onomastica italiana senza alcun dibattito pubblico.

Come una cartella esattoriale, dicevamo, arriva puntuale la domanda di Mannoni sulla cittadinanza. Risponde Riccardi di fronte a una platea in ‘religioso’ (ma tanto laico) silenzio. Premette un po’ sconfortato che il governo Monti non ha tra i propri compiti quello di occuparsi di cittadinanza (diciamo noi: al presidente Napolitano piacerebbe tanto). “Si parla tanto di ius soli da una parte e di ius sanguinis dall’altra.  – dice Riccardi – Io [quando si parla di immigrazione] sono per lo ius culturae”. La platea, smarrita, lo guarda. “Quando si aderisce alla storia e alla cultura dell’Italia, bisogna poter avere il diritto di acquisire la cittadinanza italiana”, e giù con le storie dei bambini ucraini e marocchini che apprendono la lingua dei padri nella classi di una scuola campana recentemente visitata. Insomma lo ius culturae come sintesi tra ‘solisti’ e ‘sanguinisti’, superamento della fisica territorialità da una parte e della genetica dall’altra. Temiamo si tratti di una di quei neologismi dai quali saremo perseguitati nei prossimi mesi e anni.

Qualche indizio che Riccardi appartenga a quella cultura politica dell’elargizione del passaporto a tutti i costi ce l’abbiamo, ma seguiamo per un attimo il ministro. Dunque,  se si appartiene (o si aderisce, sig. ministro?) alla storia e alla cultura di un popolo, arriva la cittadinanza. Cultura? Problema della definizione a parte, come la si delimita? Forse Riccardi pensa che la cultura possa diventare un nuovo spazio etereo, immateriale, nel quale costringere, eh sì, una società multirazziale e multiculturale?

Sperando che in futuro il ministro torni sull’argomento, elargendo all’opinione pubblica qualche spiegazione in più sul come e quando –  cittadinanza alla nascita (sarebbero allora i genitori a doversi impegnare ad aderire alla cultura italiana?), o alla maggiore età del ragazzo/a (dopo un percorso a punti?) -, Riccardi dimostra di muoversi dentro una visione del mondo incline a piegare la “cultura” dentro un processo d’ingegneria sociale a guida statale che obbligherebbe – facendo uso di qualche forma di coercizione se si fa sul serio –  a far stare i nuovi italiani, gli immigrati naturalizzati, dentro un recinto ‘culturale’ definito a tavolino. Chiediamo: ma il mantra della sinistra, a cui il cattolicesimo post Concilio Vaticano II di Riccardi appartiene, non era che la cultura dovesse essere libera? E poi: chi sarà chiamato a decidere sulla maggiore e minore estensione di questo spazio culturale nel quale si definisce l’italianità? Chi ne definirà i simboli e i criteri d’inclusione? E chi, di riflesso, assumerà l’onere di definirne quelli d’esclusione? Si tratterebbe di un processo decisionale fatto alla luce del sole, dentro una sana e trasparente dialettica politico-parlamentare? Oppure qualche grigio burocrate deciderà per tutti noi?

Domande legittime eppur senza risposta. Il tema della cittadinanza agli immigrati, anche alla luce dei fallimenti del multiculturalismo d’Olanda, Gran Bretagna e Scandinavia e dell’assimilazionismo anti-religioso francese, deve rimanere dentro una dimensione prettamente politico-partitica. Ma poi, a pensarci bene, non serve troppo farsene un cruccio. In fin dei conti, c’è da star certi che, giunti al momento di decidere se seguire una via piuttosto che un’altra anche su questa materia, qualche governo tecnico ci salverà dai mille dubbi e deciderà per – e malgrado – i cittadini italiani, quelli che già lo sono.