Sulla giustizia il PdL deve evitare la sindrome Tafazzi
19 Luglio 2011
Nonostante il legittimo fastidio per taluni singoli comportamenti che, pur se ancora da provare, adombrano un esercizio del mandato politico finalizzato al bene proprio assai più che al bene comune, vi sono molte buone ragioni per non cedere alla nuova ondata giudiziaria che come una marea montante si sta abbattendo sulla maggioranza di governo. Vi è l’esigenza di salvaguardare quel poco che resta delle garanzie parlamentari, azzoppate prima dall’abolizione dell’autorizzazione a procedere e poi da una progressiva degenerazione di fatto che in queste ore ha indotto, ad esempio, i giudici del caso Ruby a respingere tutte le eccezioni della difesa, e tra queste quella sul monitoraggio consapevole e surrettizio ai danni del premier attraverso intercettazioni indirette e acquisizione di tabulati telefonici. Ma vi è anche la necessità di non trasformare il nuovo corso del "partito degli onesti" in una sorta di complesso di inferiorità o di sindrome Tafazzi, perché se è indubbiamente vero che Berlusconi è un perseguitato ma non tutti lo sono, è altrettanto vero che – fatte le debite proporzioni – nel centrodestra il leader non è il solo ad aver subito dalla magistratura un trattamento ingiusto. E anche nei casi in cui tale trattamento non fosse del tutto ingiusto, a parità di condizioni è così evidente lo strabismo del circo mediatico-giudiziario nel nostro Paese; perché, prima di spalancare le porte del Parlamento alle Procure e decapitare esponenti di governo, vale comunque la pena pensarci bene non una ma cento e centomila volte.
Per avere l’ennesima prova dei due pesi e delle due misure non è necessario scomodare Patrizia D’Addario e la cortina di silenzio fatta calare sulle nuove dichiarazioni dell’ex più intervistata d’Italia. Non serve neanche soffermarsi sul gran clamore che suscitò la scoperta della temibilissma P3 che pianificava imprese fallimentari al grido di "non contiamo un cazzo", e paragonarlo all’ovattata discrezione assicurata al giro di amici di Massimo D’Alema che invece ogni volta che puntava a qualcosa raggiungeva immancabilmente l’obiettivo. Basta fermarsi ancora più a Sud di Bari e di Napoli, basta fermarsi in Sicilia, dove vicende giudiziarie con ricadute politiche hanno preso strade così clamorosamente diverse, e così clamorosamente diversa è la valutazione che ne è stata data, da chiedersi cos’altro debba succedere perché tutti, anche nello stesso centrodestra, prendano coscienza del nuovo 1992 che si prepara per non farsi cogliere impreparati.
In Sicilia c’è un ministro, Saverio Romano, che dopo otto anni di indagini e ben due richieste di archiviazione da parte del pm si è visto formulare su richiesta del gip un’imputazione coatta per concorso esterno in associazione mafiosa, e parallelamente ha visto ripartire un’inchiesta fondata su intercettazioni risalenti al 2004, riaffiorate dagli archivi dov’erano sepolte su segnalazione dell’oracolo Massimo Ciancimino, e che dopo sette anni potrebbero imboccare la via di Montecitorio sotto forma di una surreale richiesta di autorizzazione all’utilizzo. Sempre in Sicilia c’è poi un presidente della Regione, Raffaele Lombardo, per il quale ben quattro pubblici ministeri avrebbero voluto chiedere il rinvio a giudizio se non fosse stato per il provvidenziale intervento del procuratore di Catania che ha stralciato dall’inchiesta la posizione del governatore e di suo fratello avocandole a sé. Va da sé che mentre Saverio Romano è bersagliato da richieste di dimissioni e mozioni di sfiducia individuali, Raffaele Lombardo ha fin qui goduto e tutt’ora gode della convinta collaborazione delle toghe che ha chiamato in giunta e del pieno sostegno di coloro – dal Pd al Terzo Polo, compreso un inedito Fabio Granata in versione garantista – che a Roma si ergono a rigidi censori dell’etica pubblica.
Ci sarebbe di che sollecitare un bel dibattito al Csm. Se non fosse che il vicepresidente Michele Vietti è senz’altro persona corretta ma a discettar serenamente delle venture del Terzo Polo siculo non ce lo vediamo proprio. E se non fosse che anche il grande capo dell’organo di autogoverno delle toghe, l’inquilino del Colle più alto, nell’inaugurare per Saverio Romano l’istituto della "nomina a ministro con riserva quirinalizia", confessò candidamente di aver assunto "informazioni sullo stato del procedimento a suo carico per gravi imputazioni" apprendendo così che il gip non aveva ancora accolto la richiesta di archiviazione inoltrata dalla Procura e che si sarebbe pronunciato di lì a qualche tempo. Cosa che ha fatto nei giorni scorsi. Ma a questo punto, chissà con quale serenità.