Sulla miseria della condizione studentesca in Tunisia

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Sulla miseria della condizione studentesca in Tunisia

21 Gennaio 2011

La rivolta popolare in Tunisia senza dubbio lancia un segnale nuovo: c’è uno spirito di contestazione di cui si fanno portatori i giovani, le donne e i lavoratori nel mondo arabo, una mobilitazione collettiva dopo la lunga seduzione di Al Qaeda e del fondamentalismo religioso. L’ampiezza del fenomeno conferma questa valutazione. Protestano gli studenti tunisini che hanno scacciato Ben Ali, i giovani algerini, quelli egiziani contro il faraone Mubarak, l’università yemenita di Sanaa. L’onda iraniana si candida ad essere un’alternativa al khomeinismo e al regime di Ahmadinejad.

Le forme di ribellione sono diverse tra loro e in certi casi esprimono un puro rifiuto dell’esistente, sottoforma di gesti estremi e tragici come il darsi fuoco – senza alcuna prospettiva di superamento positivo in obiettivi politici o altre idealità. E’, al contrario, un rifiuto nichilistico del potere sentito come oppressivo, totale, fatto di corruzione e nepotismo, e per questo impossibile da riformare. I riot algerini, come accade nelle banlieus francesi, manifestano quella radicale perdita di senso che guida i blousons noirs di una volta a devastare poste negozi e uffici dello stato.

E mentre rispettabili organizzazioni come il Silatech Index danno voce ai sogni di una generazione che vorrebbe – pare – solo una famiglia e un po’ di stabilità economica, FMI e Banca Mondiale lanciano l’allarme occupazione: nei prossimi anni saranno necessari centinaia di milioni di posti di lavoro per salvare il mondo arabo. Lo scarto fra desideri e bisogni della vita quotidiana appare quindi incolmabile. Così il giovane arabo viene percepito a livello globale come una risorsa e insieme una minaccia, è disprezzato ma al tempo stesso ammirato fino alla compiacenza. Se lo stereotipo è quello per cui l’Islam – un’essenza statica – non può cambiare, mai, ai giovani e agli studenti viene cucita addosso l’etichetta dei guastatori, del soggetto storico “condannato” al mutamento.

In realtà, si tratta di una condizione provvisoria e le cose non cambieranno facilmente. Dopo aver rotto gli schemi i giovani arabi dovranno tornare a svolgere un ruolo positivo nel funzionamento del complesso neoliberale, ma al tempo stesso saranno incapacitati a farlo perché l’università di massa – com’è già avvenuto nei Paesi occidentali – non riesce più a trasformarli in quadri e colletti bianchi.

La miseria della condizione studentesca è acuita dal fatto che nel mondo odierno si può avere un’immediata compensazione alle proprie fantasie rivoluzionarie grazie alla droga della “merce culturale”, come la definiva il tunisino Mustafà Khayati negli anni sessanta: quello stato di virtualità e forse ineffettività mascherata da azione che chiamiamo Internet. Tutto viene vissuto e fagocitato nella sfera dello spettacolo e la “rivolta” stessa diventa oggetto di un diluvio giornalistico senza precedenti, il sequel di battaglie cinematografiche altrettanto celebri. “E’ lo spettacolo di una rivolta possibile offerta in contemplazione per impedire che la si viva, sfera aberrante – già integrata – necessaria al funzionamento del sistema sociale”, scriveva Khayati.

Per cui possiamo certamente trasformare il trentenne che si è dato fuoco in Tunisia in un eroe della libertà ma, prima che immolarsi divenga un obbligo certificato dalla stampa, cerchiamo di capire meglio quali sono i meccanismi e soprattutto i costi di questa “prova di iniziazione” simbolica. Il prezzo e la posta richiesti dalla società dello spettacolo, infatti, sono altissimi.