Sulla vittoria del ‘no’ all’Ue Cameron ride ma a denti stretti
25 Ottobre 2011
Quattrocentottantatre contrari, 111 favorevoli: è andata come ci si aspettava dovesse andare. Nella tarda serata di ieri il parlamento britannico ha bocciato la mozione che chiedeva un referendum sulla partecipazione della Gran Bretagna all’Unione Europea. “I’s not time”: con queste parole il premier David Cameron ha motivato il suo ‘no’ all’iniziativa.
Il suo governo è, così, salvo ma nel day after vote si presenta come un mostro a due teste. Ben 81 parlamentari conservatori, infatti, insorgendo contro il loro stesso leader si sono espressi favorevolmente alla petizione popolare sfidando le misure punitive annunciate dai capi conservatori. Un numero che fa paura al primo ministro britannico, vista la valenza politica che assume. Quell’81, infatti, suggerisce una profonda spaccatura tra governo e partito. Senza contare che la vittoria di ieri può essere considerata a tutti gli effetti risicata, dato che Sir Cameron ha ottenuto la maggioranza grazie all’apporto nientepopodimenoché dei Laburisti di Miliband che si sono opposti al referendum solo ed esclusivamente per contrastare la fronda Tory, tant’è che il leader labour non ha perso occasione per sottolineare quanto questo voto incarni in cifre la schizofrenia della sua politica europea e rappresenti una “umiliazione”.
Tanto più che il referendum è stato fortemente reclamato non solo dai falchi del partito conservatore ma anche dal popolo britannico – come dimostra il 70% dei favorevoli alla mozione rilevati da un sondaggio del Guardian – che, come ha sottolineato il parlamentareTory Bernard Jenkin, da ben 35 anni non viene consultato sulle questioni europee. Del resto, a scatenare “la ribellione” è stata proprio l’approvazione nel 2008 del trattato di Lisbona, ratificato a suo tempo dai Labour. In quell’occasione il Parlamento respinse con 311 voti la richiesta di ascoltare l’opinione dei cittadini, sulla ratifica o meno del Nuovo Trattato dell’Unione europea.
Proprio alla luce di questo Cameron, alla vigila del voto, aveva garantito che avrebbe rinegoziato i termini di quel Trattato alla prima occasione e, allo stesso tempo, si era detto disposto a lavorare a favore di “riforme fondamentali” in Europa e nel rapporto con l’Europa. Parole che per gli euroscettici risuonano come promesse da marinaio e che sicuramente li spingeranno a tornare presto alla carica se non si dovessero tradurre in realtà, soprattutto in virtù del fatto che il primo ministro inglese per il momento vuole tenersi alla larga dai problemi in cui annaspa l’eurozona. E come dargli torto, vista l’improbabile gestione della crisi dell’asse Sarko-Merkel.
“Quando la casa dei vicini è in fiamme – ha affermato alla Camera dei Comuni qualche ora fa – è il caso di aiutarli a spegnere l’incendio, anche per evitare che arrivi a casa propria”. Ma, allo stesso tempo si è affrettato a specificare che “abbandonare l’Ue non è nella strategia del governo e nemmeno nell’interesse della Nazione” perché, come ha spiegato il ministro degli Esteri William Hague “il mercato europeo assorbe il 50% del nostro export e uscire dall’Ue penalizzerebbe le nostre aziende”. Insomma, la Gran Bretagna tiene un piede dentro ma si guarda bene dal tenerne l’altro fuori.
Nonostante il conservatore Michael Gove si sia affrettato stamani a smorzare i toni della polemica affermando che dopo il voto di ieri non c’è nessuna “convulsione” nei Tory e che non c’è stata “umiliazione” per il primo ministro inglese, Cameron dovrà tenere presente quello che successe nel 1993 quando la rivolta di soli quaranta deputati contro la ratifica del trattato di Maastricht rappresentò l’inizio della fine per l’allora primo ministro John Major. Un eurospauracchio da non dimenticare.