Sulle intercettazioni illegali al Cav. la Procura di Milano è “rea confessa”
06 Maggio 2011
Se contro il Cav., nonostante le acrobazie dei magistrati, le lenzuolate dei D’Avanzoni e i "travagli" di Santoro l’evidenza della prova si ostina a non saltare fuori, per quanto riguarda gli abusi della Procura di Milano nell’inchiesta sul caso Ruby c’è addirittura una confessione scritta! A darne notizia è il Corriere della Sera, che riferisce di una lettera inviata il 3 settembre 2010 dai pm meneghini Forno e Sangermano alla polizia giudiziaria, per raccomandarsi di non trascrivere conversazioni di parlamentari "che abbiano a essere indirettamente captate".
In realtà, prima di allora due telefonate di Silvio Berlusconi erano già state messe nero su bianco e utilizzate dai pubblici ministeri, forse con degli omissis, per una richiesta di proroga delle intercettazioni sull’utenza di Nicole Minetti inoltrata al gip. E, soprattutto, altre due conversazioni del premier sarebbero state trascritte dopo il 3 settembre, o in barba alle indicazioni dei pm, o – come suggerisce il quotidiano di via Solferino – a seguito di un contrordine verbale da parte della Procura.
L’aspetto più eclatante della missiva svelata dal Corriere, tuttavia, risiede nella scelta dei termini da parte dei pubblici ministeri, che sembra dare platealmente ragione a quanti ritengono che nel caso Ruby si sia verificata una clamorosa e sistematica violazione dell’articolo 68 della Costituzione, della legge Boato che lo attua e di una consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale. In numerose sentenze anche molto recenti, infatti, la Consulta ha distinto con grande chiarezza le intercettazioni "casuali" dalle intercettazioni "indirette" dei parlamentari.
Le prime si verificano quando un parlamentare fa ingresso in maniera fortuita e del tutto imprevedibile nelle conversazioni di una terza persona la cui utenza sia sottoposta a intercettazione, per cui neanche volendo gli inquirenti potrebbero munirsi preventivamente del nulla osta del Parlamento. La seconda fattispecie ricorre invece quando qualche parametro, come ad esempio i rapporti fra l’intercettato e il parlamentare, o il ripetersi dei colloqui fra loro, o ancora l’attinenza delle loro conversazioni con le circostanze oggetto di indagine, consentano di prevedere che a un primo contatto ne seguiranno altri di analogo tenore. In questo secondo caso – e cioè nel caso in cui le intercettazioni dei parlamentari su utenze di terzi siano "indirette" e non "casuali" – la giurisprudenza della Corte Costituzionale è inequivocabile: indipendentemente dall’uso che ne viene fatto, esse devono comunque essere soggette all’autorizzazione preventiva da parte della Camera di appartenenza dell’esponente delle istituzioni coinvolto negli ascolti.
Orbene, facendo riferimento per iscritto a conversazioni di parlamentari "indirettamente captate", i pm del caso Ruby nella lettera "galeotta" del 3 settembre dimostrano di essere perfettamente consapevoli che le utenze intercettate erano interessate da contatti nient’affatto casuali con membri del Parlamento. O meglio, con un membro a caso della Camera dei Deputati che risponde al nome di Silvio Berlusconi. A rigor di logica, di Costituzione, di legge Boato e di Corte Costituzionale, dunque, la Procura avrebbe dovuto sospendere gli ascolti e chiedere l’autorizzazione a Montecitorio. E invece, manco a dirlo, nulla di tutto questo è avvenuto. Gli inquirenti non solo sono andati avanti come se nulla fosse, ma addirittura hanno acquisito e incrociato una enorme quantità di tabulati telefonici – equiparati alle intercettazioni sotto il profilo dell’articolo 68 – attraverso i quali sono stati ricostruiti i contatti del premier e le presenze dentro casa sua. Insomma la confessione c’è, l’evidenza della prova pure. Cos’altro deve accadere affinché gli organi istituzionalmente preposti battano un colpo?