Sulle pensioni delle partite Iva la Fornero dice solo mezze verità

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Sulle pensioni delle partite Iva la Fornero dice solo mezze verità

16 Maggio 2012

Durante il forum sulle ‘partite Iva’, andato in onda su internet la scorsa settimana (su corriere.it), il ministro del lavoro ha affermato che “nulla di quanto versato verrà perso”, riferendosi ai contributi pagati dai giovani alla gestione separata Inps. La discussione verteva sulla disposizione del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro che fissa un aumento di sei punti percentuali dell’aliquota contributiva dei parasubordinati (coloro che sono iscritti alla gestione separata Inps), che da qui al 2018 la farà salire gradualmente dall’attuale 27,72% al 33,72%.

L’aumento è criticato dalle partite Iva perché, al di là del sovraccarico di oneri, non ricambia con un miglioramento delle prestazioni, tanto meno della nuova Aspi (l’assicurazione sociale per l’impiego) al cui finanziamento è diretto il rincaro contributivo. E’ proprio per replicare a tale critica che Elsa Fornero fa quell’affermazione. “L’aumento dell’aliquota contributiva”, spiega, “serve ai giovani per avere pensioni più dignitose quando usciranno dal mercato del lavoro. Nulla di quanto versato verrà perso”, rassicura. “E’ un contributo per i giovani professionisti che altrimenti rischierebbero di vivere in condizione di indigenza in futuro”, è la sua conclusione.

Il ministro ha detto il vero, ma non tutta la verità. E’ vero, infatti, che nel sistema contributivo ogni centesimo di euro di contributo finisce in pensione, il che consente di asserire che ‘nulla è perduto’. Tuttavia, nel caso specifico della gestione separata, questa “logica” – contributi che si trasformano in prestazioni – non è così scontata; e quando lo è, lo è certamente con meno vantaggio rispetto ad altre categorie di lavoratori (dipendenti e autonomi). 

Infatti, in una pluralità di casi, il contributo pagato alla gestione separata finisce per concretarsi in una vera e propria tassa, senza ritorno alcuno per chi li ha pagati. E’ il caso dei cosiddetti ‘contributi silenti’, di contributi cioè che non danno vita a nessuna prestazione perché il lavoratore che li ha pagati non ne raggiunge il diritto (sono valutati attorno ai 10 miliardi di euro l’anno); ma questo può dirsi che faccia parte del gioco previdenziale (assicurativo): tutti pagano, ma solo chi matura i requisiti (chi si ritrova nelle condizioni ‘assicurate’ dal pagamento del contributo) è ammesso a fruire delle prestazioni. 

Il problema vero sta, invece, nel fatto che, quando nel migliore dei casi il lavoratore riesce a conquistarsi una prestazione, spesso ci arriva dopo aver sgobbato molto più dei suoi simili (dipendenti e autonomi). E’ in questi casi che diventa realistica e tangibile la critica delle partite Iva: la gestione separata funge da “bancomat” per il Paese! La questione sta nelle regole per il cosiddetto ‘accredito contributivo’ che non sono uguali per tutto l’universo della previdenza: ciò che vale per lavoratori dipendenti, professioni (con propria cassa) e autonomi (artigiani, commercianti, ecc.), non vale per i parasubordinati che soggiacciono, invece, a regole meno vantaggiose.

Su questo il ministro ha sorvolato, nonostante le competenze che la contraddistinguono. E’ stato un peccato davvero: avremmo potuto capire come giudica questa strana anomalia.

La questione è molto tecnica, ma vale la pena parlarne. Per semplificare il discorso partiamo da un esempio. Nel linguaggio comune dire che per andare in pensione servono “65 anni d’età e 20 anni di contributi” è lo stesso di dire che servono “65 anni d’età e 20 anni di lavoro”. In altre parole, si usano come sinonimi “contributi” e “lavoro”, cosicché a “un anno di lavoro” si fa corrispondere “un anno di contributi” e viceversa. Questa corrispondenza è vera in quanto, per ogni anno di lavoro, si paga un certo ammontare di contributi tale da garantire un intero anno di “accredito contributivo” utile ai fini della pensione.

Tuttavia la corrispondenza è esatta solo se il lavoratore è “dipendente” o “autonomo”; può risultare non esatta, invece, se il lavoratore è un parasubordinato, cioè iscritto alla gestione separata. Ciò che contraddistingue le tre categorie di lavoratori sono proprio le regole per l’accredito contributivo, poiché mentre per dipendenti e autonomi esiste un meccanismo che garantisce che ad ogni giorno, settimana, mese o anno “di lavoro” corrisponda esattamente un giorno, settimana, mese o anno “di contributi”, lo stesso meccanismo non opera nel caso dei contributi dovuti alla gestione separata.

Il meccanismo si chiama “minimale contributivo”: è l’importo minimo, al di sotto del quale non si possono calcolare i contributi da pagare (è vietato dalla legge). Quindi, se anche la retribuzione pagata al dipendente è inferiore a tale minimo, l’impresa è comunque tenuta a versare un contributo calcolato sul minimale così da garantire al lavoratore “l’accredito contributivo”: ha lavorato un giorno avrà un giorno di accredito contributivo; ha lavoratore un mese o un anno avrà un mese o un anno di accredito contributivo.

Lo stesso meccanismo, come detto, non funziona coi contributi pagati alla gestione separata. Infatti, i contributi sono calcolati e pagati sugli effettivi compensi dei lavoratori, senza tener conto di un importo minimo (non c’è “minimale”). Però, il “minimale” opera ai fini dell’accredito contributivo, nel senso che per avere l’accredito di un giorno, di un mese o di un anno di contributi, è necessario che risulti pagato un tot preciso di contributi predeterminato per legge. Per l’anno 2012, l’importo minimo di contributi che deve pagare il lavoratore iscritto alla gestione separata per avere un anno o un mese di “accredito contributivo” è rispettivamente pari a euro 4.138,60 (euro 4.031,10 ai fini pensionistici) e euro 344,88 (euro 335,93 ai fini pensionistici) per chi paga l’aliquota del 27,72%.

Ciò significa che l’Inps, in presenza di un versamento di contributi di 4.140 euro accrediterà un anno intero di contributi; mentre in presenza di un versamento di contributi inferiore a 4.139 euro, accrediterà tanti mesi quante volte l’importo di 344,88 euro entra nell’importo di contributi versati. In quest’ultimo caso, allora, diventa possibile che l’Inps, per un lavoratore che abbia lavorato un intero anno, accrediti meno di un anno di contributi ai fini della pensione.

Tradotto in termini di compensi, per raggiungere il versamento minimo che permette di ottenere un anno di accredito di contributi, il lavoratore deve guadagnare almeno 14.930 euro nello stesso anno (dati riferiti al 2012) ossia 1.245 euro mensili. In base a questo meccanismo, il collaboratore che guadagna la metà, ossia 622 euro al mese (7.465 euro l’anno), dovrà lavorare due anni per avere dall’Inps il riconoscimento di un anno di contributi utili ai fini della pensione.

Questa strana anomalia colpisce soprattutto ‘le giovani’. L’Inps dice che nel 2010 i parasubordinati con almeno un versamento nell’anno sono 1,7 milioni di cui l’85% (1,4 milioni) sono collaboratori e il restante 15% (poco più di 250 mila) sono professionisti. Il 58,7% (circa 995 mila) sono maschi e il 41,3% (circa 700 mila) femmine. Il 66,5% (1,1 milioni) sono iscritti esclusivamente alla gestione per i parasubordinati mentre il 33,5% (circa 568 mila) sono iscritti anche ad altre gestioni o sono pensionati (sono i fortunati!). 

Il reddito medio annuo è di 17.430 euro (euro 21.510 per i maschi e 11.620 per le femmine). L’età media si attesta sui 42,2 anni (45,0 anni per i maschi e 38,3 anni per le femmine); 707.192 parasubordinati hanno età tra 18 e 39 anni e un reddito inferiore a 15 mila euro. Stando ai dati, le femmine, con gli 11.620 euro di reddito, per ogni anno di lavoro ottengono accreditati soltanto 9 mesi di contributi. Dopo 20 anni di lavoro, pertanto, avranno raggiunto 15 anni di contributi utili ai fini pensionistici, e per andare in pensione (secondo il nostro esempio, a 65 anni con 20 anni di contributi) dovranno lavorare 7 anni in più.