Sull’election day il centrodestra si ricompatta e Monti potrebbe rischiare grosso

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Sull’election day il centrodestra si ricompatta e Monti potrebbe rischiare grosso

15 Novembre 2012

O tutto prima o tutto dopo. Separare le regionali dalle politiche ha un costo anzitutto economico e uno tutto politico. Il primo a carico dei cittadini, il secondo del centrodestra. La ‘vecchia’ coalizione si ricompatta sul tema del giorno e il Pdl minaccia di staccare la spina al governo tecnico se la scelta del Viminale sulla data del voto in Lazio, Lombardia e Molise (10-11 febbraio) dovesse restare tale. Alfano attacca, il Cav. è furibondo, Monti potrebbe rischiare grosso.

La via stretta che Alfano, Casini, Fini e Maroni indicano al Colle è: o si anticipano le politiche, oppure si accorpano le regionali alle nazionali, magari in marzo. Una via stretta perché il Pdl su questo è intenzionato a dare battaglia. E’ un Alfano con l’elmetto quello che parla di errore “grossolano e madornale” accusando Monti di essersi “inginocchiato a Bersani”, col risultato finale che gli italiani pagheranno “una tassa di 100 milioni al Pd”. Affondo durissimo, come le parole di fuoco che avrebbe usato il Cav. nel vertice di ieri davanti al segretario e ai maggiorenti del partito. Con un monito neanche troppo velato: a seconda della determinazione che assumerà il premier sulla scelta del Viminale (venerdì in Consiglio dei ministri), il Pdl valuterà nel fine settimana il da farsi, cioè se staccare o meno la spina al governo, magari dopo il varo della legge di stabilità. Dead line che peraltro per ragioni politiche diverse (anche se il risultato non cambia), aveva già tracciato il leader della Lega Maroni annunciando il ritiro dei parlamentari da Montecitorio e Palazzo Madama.

Il prezzo economico sta nei cento milioni di euro necessari per coprire il costo di elezioni regionali che porteranno alle urne quindici milioni di elettori in tre regioni, gli stessi che insieme al resto degli italiani, cinquanta giorni dopo torneranno al voto per le politiche. Il ragionamento è: in tempi di rigore, tasse, lacrime, tagli e freno a mano tirato, destinare una cifra tanto ingente che potrebbe essere messa a copertura di altre priorità per il paese ‘scoperte’, come si può pensare di spendere 100 milioni in una tornata elettorale e un mese dopo affrontare nuovi e altri costi per il test delle politiche?

L’accorpamento per il Pdl è la via da seguire in un lasso di tempo da individuare tra la fine di febbraio e aprile. Il Pd, invece, rimbalza.

A ben guardare, ci sono anche ragioni tutte politiche nel duro botta e risposta tra i principali partiti della strana maggioranza di Monti. Nel Pdl si teme che una possibile sconfitta alle regioni finisca per condizionare l’esito delle politiche. Oltretutto, con in mezzo la lunga maratona delle primarie che rischiano di venire annacquate (ma c’è chi non esclude che potrebbero perfino saltare) dal tourbillon della campagna elettorale nelle tre regioni al voto e, in caso di sconfitta, lacerare ulteriormente il partito.

La Lista per l’Italia di Casini e Fini, invece, si preoccupa per una campagna elettorale che se le cose resteranno così, sarà lunga  carica di tensione. Non solo: quattro o cinque mesi di comizi da un capo all’altro dell’Italia, di fatto, penalizzerebbero l’azione e l’immagine del governo Monti del quale i soci di maggioranza centristi sono i più strenui sostenitori. E ancora: un doppio turno di voto a febbraio o marzo, consentirebbe a Casini di condurre da protagonista pressoché assoluto tutta la partita per le candidature nella Lista per l’Italia rispetto al movimento di Montezemolo e quello di Todi 2 (Bonanni-Riccardi-Olivero) in deficit di radicamento territoriale e maggiormente in difficoltà a raccogliere le firme per una lista propria. Tanto che l’ipotesi da giorni in circolazione prevede l’ingresso delle due ‘sigle’ all’interno della creatura casiniana.

Ragioni contrapposte a sinistra: Bersani sa di avere il vento in poppa (i sondaggi danno il Pd al 31 per cento) e sa di essere avvantaggiato soprattutto nel caso in cui la riforma della legge elettorale che passerà al Senato dovesse arenarsi alla Camera e dunque si tornasse al voto col Porcellum. Per questo i democrat hanno tutto l’interesse – politico – a tenere ben distinti i due test elettorali, nonostante l’equilibrismo del leader Pd: “Alfano non faccia il mestiere del presidente della Repubblica. Si vada a votare nei tempi giusti per le politiche e prima che si puo’ per le Regioni senza governo. Ho sempre detto questo e mantengo questa posizione”.

Il pressing sul Colle è scattato, ma la sollecitazione di Napolitano non cambia: si faccia al più presto la legge elettorale. Il che significa usare la massima cautela nel maneggiare il tema dello scioglimento anticipato delle Camere. Anche perché – sarebbe il ragionamento e la preoccupazione del Quirinale – se non si cambia il Porcellum, ciascuno se ne assumerà la responsabilità dinanzi ai cittadini. Del resto, gli stessi partiti sanno che da quella che assomiglia sempre più una cruna dell’ago deve passare una riforma necessaria e non più rinviabile, pena il disfacimento del quadro politico a vantaggio della non politica di Grillo&C.

Il dossier della discordia è sul tavolo di Monti che già oggi potrebbe cominciare a ragionarci su. Certo è che il momento è delicato e con la legge di stabilità già incardinata in Parlamento, il governo tecnico non può rischiare di finire impallinato su una norma tanto strategica. Ragion per cui Palazzo Chigi attende che si trovi un accordo complessivo sulle questioni aperte. Cosa non facile ma possibile.

La politica segue dinamiche tutte sue, ma stavolta – al netto dei tatticismi – puntare sull’election day significa risparmiare 100 milioni da spendere per emergenze che non possono attendere: famiglie in difficoltà, giovani senza lavoro, imprenditori ‘uccisi’ dalle tasse.