Sull’Iran, neocon e realisti potrebbero sanare il loro dissidio
29 Giugno 2009
Uno dei danni collaterali della guerra in Iraq è stata la confusione che ha portato nella politica estera americana, in particolare su una questione: quale priorità assegnare alla promozione della democrazia nel mondo? Le recenti elezioni in Iran, che hanno portato alla ribalta un’opposizione viva ma impossibilitata a vincere, hanno posto al centro dell’attenzione l’urgenza di fare chiarezza su tale questione. Sosteniamo coloro che cercano di uscire dall’oppressione e ottenere la libertà? E se sì, come? Forse è meglio ricordare in che modo siamo arrivati a confonderci le idee.
Più o meno sedici anni fa, una ristretta cerchia di freddi guerrieri, inebriati dalla vittoria, conclusero che, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la democrazia e la libertà d’impresa erano state vendicate. Per questi neoconservatori, il compito dei futuri presidenti americani sarebbe stato quello di spargere nel mondo il gospel della democrazia – se necessario, con la forza – in modo che i governi diventassero responsabili verso i rispettivi popoli e dunque meno inclini a fare la guerra. Nel 2003, probabilmente è stata l’idea di diffondere la democrazia, piuttosto che il pericolo delle armi di distruzione di massa, a far scattare l’invasione Usa dell’Iraq.
Per l’intero arco dei suoi due mandati, il presidente Bush è stato un infaticabile avvocato della democrazia, anche quando il voto popolare ha portato alla vittoria partiti quanto mai “non-jeffersoniani” quali Hezbollah e Hamas. E’ proprio qui che nacque la battaglia tra i neocon e i realisti. L’attuale situazione iraniana offre un’opportunità per portare questo dibattito su un piano meno dottrinario e più concreto.
Semplificando al massimo: in Iran ha vinto l’uomo sbagliato. In ogni caso, in quel paese c’è anche un’opposizione reale, che andrebbe sostenuta. Ilan Berman, vicepresidente dell’American Foreign Policy Council, è uno dei migliori analisti dell’attuale politica iraniana. Così spiega la ragioni di questa opposizione: “L’Iran si trova nel bel mezzo di una grave situazione di malessere. L’inflazione è vicina al 30 per cento. Dilaga la disoccupazione, che ufficialmente è data al 10 per cento ma che ufficiosamente si stima arrivi almeno al 25 per cento. Quasi un quarto degli iraniani vivono oggi sotto la soglia di povertà, e tanto la prostituzione quanto la droga sono diffusissime. Si aggiunga a tutto ciò la grossolana gestione da parte di Ahmadinejad dell’economia nazionale, ed è facile vedere perché i capi dell’Iran temano che la rabbia per un’elezione rubata si tramuti in qualcosa di più”.
Ma ci sarà, questo salto della protesta? Cosa ne sarà delle aspirazioni e della vita delle centinaia di migliaia di dissidenti che stanno fieramente affrontando la brutalità della polizia in nome della libertà e della responsabilità?
Le ragioni alle quali dovremmo fare attenzione vanno ben al di là della custodia dei principi wilsoniani. Coinvolgono anche i principi più realistici. L’Iran rappresenta un formidabile pericolo per gli Stati Uniti e i suoi alleati, fondamentalmente per tre ragioni. Il cammino, illegale, di Teheran verso lo status di potenza dotata di arsenale atomico è ben avviato. Le settemila centrifughe della nazione stanno arricchendo uranio che potrebbe produrre abbastanza materiale fissile da armare, entro un anno, una o più bombe. Se l’Iran continuasse su questa strada, che abbia successo o meno, altre nazioni mediorientali saranno tentate di procedere alla creazione di un proprio arsenale nucleare di deterrenza. Si genererebbe una proliferazione a catena tra paesi come Arabia Saudita, Egitto e forse Giordania. In breve tempo la situazione andrebbe fuori controllo.
La sola esistenza del programma nucleare iraniano è vista come una minaccia all’esistenza di Israele. Anche una capacità atomica non dichiarata ma comunque plausibile darebbe all’Iran un’enorme influenza politica nella regione. La sua capacità di coercizione sui vicini aumenterebbe in modo esponenziale.
Una seconda questione è la sponsorizzazione e l’appoggio dato ai gruppi terroristici: Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, e meno marcatamente la Jihad islamica e la Fratellanza musulmana. A meno che l’Iran non smetta di sostenerle, queste organizzazioni alla fine distruggeranno Israele, per non parlare delle nazioni che le ospitano. Negare lo stesso diritto all’esistenza di Israele mentre si armano apertamente gruppi terroristici votati alla sua distruzione, costituisce un’aggressione sotto ogni aspetto delle leggi internazionali. Queste azioni meritano di essere citate in una sanzione formale.
Il presidente Obama ha detto chiaramente di voler dialogare con il governo iraniano. Ma ignora una domanda fondamentale. Che cosa significa “dialogo”, oltre a parlarsi? Trattando con l’Iran, il presidente ha bisogno di tutti gli strumenti diplomatici a sua disposizione. Primo, il presidente ha bisogno di rafforzare la nostra posizione acquisendo alleati. Obama deve sedersi a un tavolo con gli stati arabi moderati, deve ascoltare il loro punto di vista e stringere un accordo su una strategia per la sicurezza nella regione. Tale strategia deve includere un vigoroso programma di aiuti all’opposizione iraniana, fondato su un programma adeguatamente finanziato di attività informativa diretta all’Iran. Ciò aiuterebbe l’opposizione a organizzarsi e crescere. Recenti studi attestano che l’Iran è la nazione più “connessa” del Medio Oriente. Quasi il 35 per cento della sua popolazione ha internet.
Oltre a tutto questo, Obama deve rendere consapevoli gli alleati in Europa e in Asia di quanto Teheran sia diventato una minaccia alla pace nella regione. Deve quindi lanciare una decisa campagna in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu affinché vengano imposte sanzioni a chi commercia benzina con l’Iran. Ciò sottolineerebbe il nostro impegno nello sventare le ambizioni nucleari iraniane.
Barack Obama sta tentando di costruire una dottrina basata sul realismo, una dottrina che porti avanti i nostri interessi e quelli di chi nel mondo aspira alla democrazia. Per quanto riguarda l’Iran, se avrà successo o meno lo si vedrà nelle prossime settimane.
Robert McFarlane, consigliere per la sicurezza nazionale tra il 1983 e il 1985 durante l’amministrazione Reagan, è senior adviser della Fondazione per la difesa delle democrazie.
Tratto da Wall Street Journal
Traduzione di Enrico De Simone