Sullo scacchiere iracheno si gioca la partita con Teheran

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Sullo scacchiere iracheno si gioca la partita con Teheran

20 Luglio 2007

In seguito a una conferenza
tenutasi presso l’università di Haifa lo scorso marzo, l’American Enterprise
Institute (Aei) ha pubblicato qualche giorno fa lo studio sulla politica e sugli interessi
iraniani in Iraq del suo resident scholar,
ex consigliere della Iraqi Coalition
Provisional Authority ed editore della rivista Middle East
Quarterly, Michael Rubin. Contrariamente all’approccio che vorrebbe Teheran,
impegnata a replicare in un nuovo Stato iracheno il modello islamico vigente in
Iran, Rubin argomenta come le strategie iraniane mirano piuttosto a promuovere ai
propri confini realtà satelliti e dipendenti, sulle quali esercitare
un’influenza diretta ed inflessibile. Si tratta di un disegno complesso che
affianca operazioni militari a studi di intelligence
ed interventi di carattere economico, politico e sociale, all’interno del quale
l’affermarsi della democrazia in Iraq rappresenta una “minaccia esistenziale
per la teocrazia iraniana”, come l’ha definita Rubin. Nel suo discorso presso l’ateneo israeliano, Rubin ha dunque ribadito la fondamentale
importanza del successo della missione statunitense a Baghdad, nonché il valore
di creare un governo stabile e moderato a maggioranza sciita, al fine di
contrastare la legittimità teologica rivendicata in Medio Oriente dalla
Repubblica Islamica d’Iran.

Nella sua analisi, lo studioso
dell’Aei parte dalla constatazione della distinta vulnerabilità della
Repubblica Islamica d’Iran in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein.
Con la radicalizzazione dell’insegnamento khomeinista a partire dal 1970 ed il
susseguente affermarsi del governo teocratico-clericale, rinforzatosi negli
anni Novanta con l’ascesa della figura di Ali Khamenei, in Iran è andata
progressivamente imponendosi una politica di zero tolerance verso i dissidenti religiosi, più generalmente mirata
a contrastare coloro che si dichiarano a favore della separazione tra potere
temporale e spirituale negli affari di governo. Se tuttavia il pugno di ferro
con cui la dittatura di Saddam reggeva l’Iraq esemplificava le inevitabili contraddizioni
di un regime sostanzialmente politico – e dunque ribadiva l’indiscussa
supremazia dell’autorità religiosa iraniana sulle sue imperfezioni -, la
liberazione dei territori iracheni e la deposizione del loro Presidente ha rischiato di dare nuovo potere alle
fazioni sciite, ponendo presupposti non solo religiosi, bensì anche istituzionali
attraverso i quali esse sono in grado di contendere la leadership iraniana sulla comunità islamica di tutto il mondo.

Alla preoccupazione nei confronti
di un’eventuale alternativa irachena a guida della comunità islamica in Medio
Oriente, si sono aggiunte negli ultimi anni le richieste di indipendenza – o
quantomeno di riconoscimento – da parte della minoranza curda iraniana. Sull’esempio del modello federalista promosso in Iraq, in
particolar modo esemplificato dall’agitata campagna referendaria per
l’annessione della città di Kirkuk al Governo Regionale Curdo pianificata per
dicembre, i curdi iraniani premono per rivendicare la cessazione
dell’oppressione e della discriminazione da parte del governo centrale,
chiamato a concedere maggiori libertà politiche e religiose a questa etnia.

La risposta iraniana alla fase di
incertezza odierna, nota Rubin, prevede un intervento in territorio iracheno
che si articola su più fronti, e ricalca visibilmente il modello con cui
Hezbollah prese possesso del Libano meridionale negli anni Ottanta. Il ruolo
centrale di tale strategia è affidato alle milizie, in particolar modo i corpi
armati del Consiglio Supremo per la Rivoluzione Islamica
in Iraq (Sciri): le Truppe Badr, infiltratesi in Iraq ancora prima che i soldati statunitensi
raggiungessero Baghdad, che minano quotidianamente i progressi della missione
statunitense per uno Stato iracheno libero e democratico attraverso controlli,
interrogatori, rapimenti ed intimidazione della popolazione. Agli interventi
armati si affianca l’appoggio iraniano alle insurrezioni dei ribelli radicali
sunniti: ritorna il “martirio” dei fedeli contro il Grande Satana, legittimato
da fatwa appositamente pronunciate,
che già in passato accompagnò la radicalizzazione degli scontri su territorio
libanese con le bombe, i rapimenti di figure di spicco locali ed internazionali
e gli attentati suicidi.

Il progetto della leadership iraniana, ricorda infine Rubin,
è a lungo termine: per questo attende con pazienza il momento propizio per
agire, non appoggiando esclusivamente una fazione né una causa politica, ma
gestendo abilmente i vari interessi economici e i conflitti tra etnie per
affermare la causa del radicalismo religioso iraniano. Allo stesso tempo,
investe solo su quegli obiettivi a breve termine che conferiscono immediato
potere, come la creazione di organizzazioni per promuovere i servizi sociali di
cui la popolazione irachena ha disperatamente bisogno: luce, acqua, lavoro,
scuole. Tutto chiaramente concesso a fronte di una propaganda culturale
massiccia, che spesso finisce per creare nuovi seguaci per la causa della teocrazia
iraniana.

All’interno di questo quadro
allarmante, Ruben richiama gli Stati Uniti ad un ripensamento importante delle modalità
di gestione dello scenario iracheno: maggiore consapevolezza della strategia
geopolitica iraniana, unitamente ad investimenti mirati per contrastare le
campagne di disinformazione locali, che rappresentano gli Usa come oppressori
(il parallelo con il modello di Israele a Gaza, malvisto nel mondo arabo,
ricorre spesso); incapaci di gestire una situazione complessa; pronti ad
andarsene appena se ne presenti l’occasione, come accadde durante la prima
Guerra del Golfo; o disposti a complottare per vendere il paese a nuovi tiranni
senza scrupoli. Per evitare le circostanze in cui l’esercito americano possa divenire
ostaggio iraniano, incapace di ritirare le truppe per non lasciare l’Iraq in
balia dell’anarchia o asservito agli interessi della Repubblica Islamica d’Iran
– sebbene impossibilitato ad agire per la vulnerabilità dei propri soldati agli
attacchi iraniani – è necessario agire con decisione: sono doverose nuove
strategie, forze ben addestrate e maggiori investimenti economici, in
particolar modo nel panorama sociale e culturale. La diplomazia in questo caso
è un inutile rallentamento del processo politico, che deve sempre e prima di
tutto perseguire la stabilità dell’Iraq e il successo degli Usa.