Sull’Ucraina per Trump si avvicina l’ora delle scelte

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Sull’Ucraina per Trump si avvicina l’ora delle scelte

Sull’Ucraina per Trump si avvicina l’ora delle scelte

11 Giugno 2025

La “Pearl Harbor” di domenica 1 giugno non ha cambiato di una virgola la posizione dei negoziatori russi a Istanbul. Prima di discutere anche solo preventivamente un cessate il fuoco, il Cremlino vuole che Kiev si ritiri dai territori che ha perso. L’Ucraina va sottomessa e disarmata.  Il secondo round di negoziati ad Istanbul, infatti, ha riconfermato uno stallo, le delegazioni si sono lasciate dopo appena un’ora, con in mano solo un’intesa sullo scambio di prigionieri, senza alcun accenno a un cessate il fuoco.

Il massiccio attacco dell’operazione “Spider Web” condotto con i droni contro gli aeroporti russi, però, smonta l’idea che l’Ucraina sia sul punto di collassare. Un attacco così coordinato e in profondità non può essere stato organizzato da un Paese disperato. Tanto più che la preparazione del raid sarebbe durata diciotto mesi. Uno sforzo d’intelligence che appare improbabile Kiev abbia compiuto totalmente da sola, senza una mano amica, perlomeno nella copertura satellitare.

La complessità della situazione sul campo, comunque, indica che a tre anni di distanza dall’inizio del conflitto Putin non può ancora pretendere di sedersi da vincitore al tavolo delle trattative. E che per il presidente Trump si avvicina il momento delle scelte. Fino adesso, la Casa Bianca ha seguito la strada della diplomazia. Solo un ingenuo avrebbe potuto credere che Trump sarebbe riuscito a rispettare la promessa fatta in campagna elettorale di risolvere la crisi in 24 ore. Per i negoziati serve tempo.

Ma Trump ha fatto dei gesti simbolici molto forti, come la telefonata del mese scorso con il capo del Cremlino. Esercitando una maggiore pressione su Kiev rispetto a Mosca. Nel frattempo, qualche giorno fa, anche Papa Leone XIV ha parlato telefonicamente con Vladimir Putin: il primo colloquio diretto tra Mosca e Vaticano in tre anni di guerra. Provost ha sottolineato l’importanza del dialogo tra le parti per finire la guerra, chiedendo alla Russia “un gesto che favorisca la pace”.

La Russia ha reagito al raid di inizio giugno con una massiccia offensiva colpendo Kyiv.  Contemporaneamente, un bombardamento aereo ha colpito Kharkiv, provocando decine di feriti e aggravando la situazione umanitaria in una città già stremata. Nel frattempo, Mosca ha aperto un nuovo fronte a Dnipropetrovsk, e le forze di polizia polacche hanno dovuto alzare in volo i jet per circoscrivere l’attacco sui cieli occidentali. Di una de-escalation non c’è traccia: i fronti si estendono, la guerra persiste, e Trump rimane a guardare.

Il 5 giugno, alla Casa Bianca, dopo il summit con il cancelliere tedesco, Trump ha definito la Russia e l’Ucraina come “due bambini che litigano al parco”, aggiungendo che a volte “è meglio lasciarli combattere un po’ prima di separarli”.

Il Presidente Trump si è molto adombrato per un nomignolo che gli è stato affibbiato dai giornalisti: “Taco” (Trump Always Chickens Out): un Comandante in capo aggressivo sui social ma che non dà seguito alle sue minacce nella realtà. Tuttavia, non si può accusare un giocatore di poker di essere ambiguo e neppure scambiare l’incertezza con l’imprevedibilità che sembra il tratto dominante del trumpismo in politica estera. In uno scenario di disimpegno americano a livello globale, Trump pensa realmente di poter gestire gli avversari dell’America, siano la Russia, l’Iran o la Cina, perseguendo esclusivamente l’interesse nazionale e le ragioni del consenso interno.

E nonostante il presidente non abbia studiato relazioni internazionali alla Georgetown, nel corso del primo mandato con gli Accordi di Abramo ha dimostrato di saper condurre il gioco, chiudendo una partita a suo favore. Ma Trump rischia di sottovalutare i suoi avversari. Putin non è guidato da una logica utilitaristica, bensì dall’avventurismo ideologico. Da quando è al potere, salvo rare eccezioni, è sempre stato in guerra. Dal 2022 ha perso oltre duecentomila uomini in Ucraina ed è stato costretto a indietreggiare rispetto alle conquiste messe a segno all’inizio del conflitto. Incurante delle perdite, adesso continua ad ammassare truppe per una nuova offensiva estiva.

Insomma, la strategia del rinvio di Trump si scontra, da un lato, con il revanscismo russo e dall’altra con l’eroica resistenza del popolo ucraino, che si batte per la libertà e per difendere la propria terra. Di questo passo, se alla Casa Bianca la linea resterà quella del colpo al cerchio e alla botte, è chiaro chi sta facendo da cerchio: Zelensky, che negli ultimi mesi ha continuato a incassare.

Si dice che Trump potrebbe presentarsi di persona ai prossimi tavoli negoziali. Se davvero il presidente volesse farsi trovare pronto al nuovo round, un modo ci sarebbe: sostenere il disegno di legge bipartisan firmato da ben ottanta senatori americani, quello che impone dazi severissimi a chi ancora ingrassa le casse di Mosca. A quel punto, finalmente, un bel colpo alla botte lo darebbe anche lui. E non sarebbe solo teatrale.