Super Obama e l’America del Partito Unico

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Super Obama e l’America del Partito Unico

31 Ottobre 2008

A una settimana dalle elezioni del 4 novembre l’attenzione del mondo politico americano si è spostata dalla competizione per la Casa Bianca, che ormai appare scontata, alla possibilità che il partito democratico conquisti non solo la presidenza del Paese, ma anche la “super maggioranza” del Congresso. Se i democratici dovessero assicurarsi 60 seggi sui 100 disponibili al Senato i poteri legislativo ed esecutivo del governo americano verrebbero, per la prima volta dalla presidenza di Jimmy Carter, assicurati nelle mani di un solo partito.

Le speranze dei democratici (e l’allarme dei repubblicani) sono ben fondati. Alle elezioni di medio termine del 2006 i democratici hanno riconquistato una solida maggioranza alla Camera, ma una maggioranza esigua al Senato. Le elezioni del 4 novembre mettono in gioco più di un terzo dei seggi senatoriali, di cui ben 22 in mano a senatori repubblicani. In Virginia, Nebraska e Colorado, tre stati tradizionalmente repubblicani, i democratici, galvanizzati dalla campagna elettorale di Obama e avvantaggiati dai bassi indici di gradimento dell’Amministrazione Bush e dalle ripercussioni politiche della crisi economica, hanno fatto passi da gigante. Secondo Larry Sabato, docente dell’Università della Virginia e analista politico americano di spicco, i democratici hanno ottime probabilità di vincere 58 o 59 seggi senatoriali e addirittura qualche possibilità di arrivare fino a 62.

Una vittoria democratica con larghi margini al Congresso accompagnata alla vittoria di Obama alla Casa Bianca potrebbe tuttavia riservare brutte sorprese per i democratici e per il Paese. La funzionalità ed efficienza del sistema politico americano si basa infatti sulla separazione dei poteri e sul sistema del check and balance, letteralmente “controllo ed equilibrio”,  il meccanismo sancito dalla Costituzione secondo il quale ciascun ramo del potere americano esercita una misura di controllo sugli altri.  Nei rapporti tra poteri esecutivo e legislativo, e cioè tra il presidente degli Stati Uniti e il Congresso americano, la funzione di check and balance è garantita dalla possibilità per l’opposizione di fare ostruzionismo al Senato (filibuster). La prerogativa del filibuster decade quando ci sia una maggioranza di sostegno a un’iniziativa parlamentare di 60 senatori su 100, una supermaggioranza, appunto.

Una supermaggioranza democratica, come del resto una repubblicana, metterebbe in discussione il sistema del check and balance e potrebbe avere conseguenze negative sulla salute politica del Paese, soprattutto in tempi di crisi economica. Il gigantesco pacchetto-salvataggio recentemente approvato con consensi bipartisan dal Senato americano ha stanziato 700 miliardi di dollari in aiuti alle compagnie americane in difficoltà. Ha consentito inoltre al governo federale di assorbire – in pratica nazionalizzare – alcune delle aziende maggiormente a rischio di fallimento. Con i democratici forti di una supermaggioranza, e cioè con i repubblicani esautorati dal controllo politico, potrebbe venire a mancare lo scrutinio necessario a garantire che il danaro pubblico venga ben amministrato e speso.

In termini più generali, anche le riforme di ampio respiro auspicate da Obama nei settori dell’assistenza sanitaria, dell’istruzione e della preservazione dell’ambiente, potrebbero subire una battuta d’arresto. Gli equilibri del Senato americano non si basano infatti esclusivamente sulla fedeltà di partito, ma sono profondamente legati alle personalità e sostrato politico dei senatori, che non sempre sentono la necessità di fare quadro. Come spiega Norman J. Ornstein, politologo dell’American Enterprise Institute: “Se i democratici raggiungeranno i 60 seggi essi includeranno tra gli altri il democratico indipendente Joe Lieberman del Connecticut, Ben Nelson del Nebraska, Mark Pryor e Blanche Lincoln dell’Arkansas, Jim Webb della Virginia, John Tester del Montana e forse Mary Landrieu della Louisiana: non proprio i tipi da cui ci si può aspettare un voto a favore di cambiamenti radicali. Dall’altro lato del partito, poi, quelli come Bernie Sanders del Montana, Sherrod Brown dell’Ohio e Barbara Boxer della California probabilmente non appoggeranno proposte centriste”.

La supermaggioranza è uno strumento che il partito democratico dovrà, se dovesse conquistarla, adoperare con cautela, anche per evitare una crisi di rigetto da parte dell’elettorato. La settimana scorsa un sondaggio del Washington Post ha rivelato che, nonostante creda nel meccanismo del check and balance, il 50% degli americani preferirebbe vedere la Casa Bianca ed il Congresso in mano ai democratici piuttosto che distribuire il potere legislativo ed esecutivo tra questi ed i repubblicani. Un rapido sguardo al passato, tuttavia, rivela che l’elettorato americano non ha riserve a punire severamente amministrazioni “mono-partitiche” deludenti.  Nel 1968 il candidato repubblicano Richard Nixon riconquistò la Casa Bianca dopo otto anni dell’amministrazione “mono-partitica” democratica di Jack Kennedy e Lyndon Johnson. Nixon riportò alla Casa Bianca i repubblicani con quasi il 60% dei voti dei collegi elettorali e riuscì anche a sottrarre ai democratici 5 seggi al Senato.  

Nel 1992 Bill Clinton divenne presidente con una maggioranza schiacciante al Senato e alla Camera (rispettivamente 57 e 258 seggi). L’eccessiva sicurezza, tuttavia, lo fece peccare d’arroganza: il presidente democratico perseguì troppo in fretta politiche troppo progressiste. Il partito perse il polso del proprio elettorato e, in soli due anni, i repubblicani guidati da Newt Gingrich riconquistarono il Congresso, mettendo fine a una supremazia democratica alla Camera e al Senato durata quasi trent’anni. Da parte repubblicana, l’esempio di George W. Bush è il monito più recente.

L’esperienza maturata durante gli anni della presidenza Clinton sommata a quasi dodici anni spesi tra le file dell’opposizione sui banchi del Congresso dovrebbero aver trasformato il partito democratico in un movimento più compatto, centrista e meno suscettibile alle sollecitazioni delle sue componenti estremiste. Il 4 novembre i democratici potrebbero andare al potere in grande stile, punendo 8 anni di amministrazione repubblicana di cui 6 “mono-partitici”. Resta da chiedersi se commetteranno gli stessi errori dell’Amministrazione Bush o se saranno in grado di gestire il proprio “super” successo senza escludere l’altra parte del Paese, nell’interesse degli Stati Uniti ma anche del proprio futuro politico.