Tacchi alti e sampietrini

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Tacchi alti e sampietrini

Tacchi alti e sampietrini

22 Maggio 2011

L’altra sera, 16 maggio usciamo da casa, dando il braccio a un’amica in tacchi alti, per andare al teatro Quirino a sentire Eugenio Bennato nel suo spettacolo musicale “Briganti emigranti”. Percorso a piedi, pieno centro storico, vicoli pavimentati a sampietrini. Si attraversa Via del Corso tuttora misericordiosamente coperta di normale asfalto col suo bel colore grigio scuro, per poi riprendere il tortuoso percorso sui sassi. La signora al mio braccio barcolla spesso, qualche volta si ferma con un piede nudo, perché la scarpa è rimasta azzannata dal selciato. All’arrivo i tacchi sono sbucciati come banane e l’equilibrio di entrambi è stato messo a dura prova.

A questo punto, stimolata dalla notizia dei giornali di Roma sull’intenzione di ripavimentare anche Via del Corso coi sampietrini, la nostra mente forse malata si è posta questa domanda: ma perché una cosa vecchia dev’essere migliore di una nuova? Ci sono cose buone anche se sono moderne. Una di queste è l’asfalto, liscio, silenzioso sotto le ruote, ottimo per le caviglie, mentre il selciato di pietre, di qualsiasi forma, è pericoloso, scivoloso quando piove, si sconnette in un attimo, specialmente col traffico pesante, è anche rumoroso. Vogliamo fare una domanda ai romani, specialmente quelli che girano su due ruote. Avete mai sperimentato la circumnavigazione di Piazza Venezia? Altro che Parigi-Dakar! Senza parlare dei pericoli mortali per i pedoni che azzardano un attraversamento, il motociclista che ci si avventura, trova sul percorso buche, montagnole, mazzate alla spina dorsale e polsi frantumati dai maledetti sampietrini eternamente sconnessi. Oltre al buio cavernoso di sera e al traffico più convulso di tutta la città. E’ il posto più incivile di Roma. C’è da fare testamento. E tutto in nome della tradizione. Il sampietrino non si tocca. Fra l’altro, in una città che ha tremila anni, l’uso di questi incriminati pezzi di pietra non è neanche tanto antico, e comunque una strada ha prima di tutto una funzione pratica piuttosto che estetica, crediamo. Dobbiamo continuare a rischiare la pelle per una fissazione retrò?

Ok, calma. Adesso possiamo parlare di musica. Torniamo al concerto. In scena una formazione robusta: quattro coriste-soliste, quattro coristi-solisti, una ritmica, anche questa fatta di solisti, di tutto rispetto, e di tanto in tanto le apparizioni di quella cometa luminosa che è Pietra Montecorvino. Una voce, un carattere, una presenza strabilianti. Padrone di casa Eugenio Bennato, gentleman napoletano, autore e interprete egregio di taranta. Ma…c’è un ma, naturalmente. Duecent’anni fa Rossini diceva di Wagner: Wagner ha dei minuti addirittura sublimi, però ha dei quarti d’ora terribili. Ecco, così è la taranta. Appena la senti ti fa battere le mani e saltare le gambe dall’entusiasmo. Al primo pezzo. Al secondo un po’ meno. Al quinto siamo già nell’ossessione. E’ tutto uguale, di grande povertà armonica. Due accordi e basta. Un tempo in quattro pesantissimo con accenti sempre uguali e, naturalmente senza un briciolo di swing. D’altra parte è un ballo popolare, di una tradizione povera, quindi va bene così. Ma certo, una serata intera di taranta…Per fortuna, come abbiamo già detto, la Montecorvino ha cantato un paio di canzoni napoletane di inizio secolo, e con lei, sì, viene fuori tutta la grande intensità di una produzione apparentemente leggera, ma invece di altissimo melodramma.

Ancora un paio di eventi romani da commentare. Il 12 maggio alla Domus Talenti, una bella idea per una rassegna organizzata dal pianista Sebastiano Brusco; si chiama Musica e Arte e abbina l’esecuzione di brani classici alla pittura di un quadro, partendo rigorosamente dalla tela bianca; non un minuto di più del tempo di esecuzione del brano stesso. I protagonisti: l’eccellente Brusco al piano, Natàlia Benedetti al clarinetto (di lei abbiamo apprezzato particolarmente, oltre alla padronanza delle chiavi, anche il muoversi disinibito del corpo, da jazzista. Raro fra i musicisti classici che di solito sono imbalsamati) e Giancarlino Benedetti, pittore. Una serata molto piacevole per la bontà dell’esecuzione, la maestria divertente e divertita del pittore, la squisitezza della torta e dei vini offertici nel giardino, ma…possibile che anche qui ci sia un ma? C’è purtroppo, perché l’atmosfera molto familiare dell’occasione ha evidentemente suggerito a uno sconsiderato seduto in prima fila (un amico, ci dicono, ma di quelli di cui è meglio non fidarsi, aggiungiamo noi) di impadronirsi, mentre brindavamo, della tastiera, sulla quale si è messo a pestare brani dell’odiatissimo (da noi) Piazzolla, nonché temi di colonne sonore. E stato lì a imperversare per un quarto d’ora con alcuni, forse amici, o forse solo degli sciocchi, che lo acclamavano: bravo professore! invece di cacciare a calci uno così maleducato da sporcare con gli scarponi il tappeto elegante tessuto precedentemente dai tre professionisti sulle trame di Saint Saens, Poulenc, Bernstein. Ecco perché noi siamo in favore della formalità dell’esecuzione classica. Per evitare simili scivolate. Per il resto bene. La rassegna prosegue.

15 maggio. Chiesa di S. Ignazio. Una delle più grandi e sontuose chiese di Roma, il soffitto magnificamente affrescato da Andrea Pozzo con almeno mille metri quadrati di prospettive folli. C’è perfino una finta cupola, dipinta magistralmente per sostituire la cupola vera mai realizzata per esaurimento dei bajocchi (siamo nel ‘600). Naturalmente, e qui ci tocca ripeterci, ma chissà che non serva a qualcosa, lungo tutti i cornicioni ci sono proiettori elettrici puntati direttamente verso il basso, sui fedeli, i quali, alzando gli occhi restano abbagliati e vedono poco di quello che invece meriterebbe. Puntate verso l’alto, al contrario, queste luci creerebbe la suggestione del cielo luminoso e della terra in penombra. Questo semplicissimo trucco (puntare in alto invece che in basso, non costa un cent.) temiamo che i preti non lo capiranno mai.

La musica. Una cosa grandiosa, come dimensioni: la Passione di Domenico Bartolucci. Coro gigante, grande orchestra diretta da Michele Manganelli, entrambi ottimi, più due solisti vocali. Questi ultimi al microfono. E qui viene fuori un problema di distanze e di acustica. Il suono viaggia lentino, l’elettricità invece velocissima, quindi le voci dei solisti che corrono sul filo, uscendo da altoparlanti proprio accanto a noi ci arrivano una frazione (ma avvertibile) di secondo prima dell’orchestra che invece viaggia nell’aria per conto suo lungo gli oltre ottanta metri della navata. Effetto di sfasamento spiacevole. Peccato perché l’acustica della chiesa, anche se penalizza gli strumenti percussivi, ingrandisce l’orchestra e soprattutto il coro rendendone magnifica l’eco. E’ solo una piccola pecca. Il resto era perfetto.

N.B. Info per i non romani. I sampietrini sono cubetti di basalto a forma di cono che si collocano infilandoli su un letto di sabbia a martellate. Facili da installare, ma altrettanto facilmente vanno fuori posto.

L’archivio del Cavalier Serpente, o meglio la covata di tutte le sue uova avvelenate, sta al caldo nel suo blog. Per andare a visitarlo basta un click su questo link: http://blog.libero.it/torossi