Tagliando le missioni all’estero non si aiuta l’Italia

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Tagliando le missioni all’estero non si aiuta l’Italia

08 Luglio 2011

di Ronin

C’è qualcosa che non torna in questa storia dei tagli delle missioni all’estero, che non  riguarda solo il ministro Calderoli e l’isolazionismo della Lega Nord, convinti che, riducendo la spesa militare, si possa dare una mano alle famiglie, ai pensionati e alle aziende. Ed è proprio la posizione dei ministri degli esteri e della difesa e del Presidente della Repubblica Napolitano. Sembrava infatti che sul decreto per il rifinanziamernto delle missioni dovesse aprirsi una grave crisi nella maggioranza, uno scontro senza precedenti fra il Colle e lo scalpitante partito leghista che la guerra in Libia neppure l’avrebbe iniziata. Ieri invece la "crisi" è rientrata: 2.078 militari italiani torneranno a casa, di cui mille dalla Libia, dove resteremo non oltre il 30 Settembre.

Un soddisfatto Calderoli ha commentato che alla fine ha prevalso "l’aspetto milanese acquisito" del collega La Russa, come a sottintendere che all’ombra del Duomo il taglio del budget militare viene considerato una pragmatica virtù (con il nuovo sindaco meneghino questo è sicuro). Né d’altra parte La Russa, Frattini o Napolitano che pure, in maniera diversa, avevano rivendicato il ruolo internazionale dell’Italia e l’impegno dei nostri militari nel mondo, hanno avanzato delle critiche serrate al cuore del ragionamento leghista (i tagli alla Difesa favoriscono l’economia del Paese), tant’è che sul Corsera di ieri si sottolineava come:

a) Napolitano avesse "apprezzato il lavoro teso a limare la spesa militare";

b) La Russa avesse rassicurato Calderoli sul fatto che "i risparmi ci sono e la riduzione dei contingenti anche";

c) Frattini avesse aggiunto che "ci sono anche delle esigenze di contenimento dei costi".

Come si possa far quadrare i tagli con la nostra fedeltà alla NATO e con una seria permanenza dell’Italia nel gruppo di testa delle grandi potenze resta un difficile gioco di equilibrismo. Quella di Calderoli (tutti a casa per risparmiare) d’altra parte non è una voce nel deserto: negli Stati Uniti un libertario radicale come Ron Paul predica da anni un ritiro generalizzato delle truppe americane e la chiusura di tutte le basi Usa nel mondo, per eliminare le costose voci di spesa dell’internazionalismo democratico e poter abbassare finalmente le tasse ad una sola aliquota.

In Olanda, Geert Wilders si è domandato perché il suo Paese debba inviare dei jet per aiutare i ribelli libici mentro l’Egitto e l’Arabia Saudita se ne stanno in panciolle. Ma al di là di tutto si può considerare la spesa militare come una causa, anzi, LA CAUSA del deficit economico? E’ un’idea che va diffondendosi sempre di più nell’Europa postuma: il budget militare può scendere perché non abbiamo più nemici da cui difenderci (attentati di Londra e di Madrid permettendo), anzi, bisogna assolutamente farlo nelle congiunture critiche dell’economia capitalista.

L’Italia, da questo punto di vista, è un caso di scuola. Dopo l’attacco alle Torri Gemelle, nel decennio in cui il nostro Paese è stato chiamato ad uno sforzo bellico inaspettato rispetto a quelli precedenti (Afghanistan, Iraq, Libano, Libia, eccetera), abbiamo ridotto il budget militare di 5,8 punti percentuali. Siamo scesi dall’ottavo al decimo posto nella classifica dei Paesi che investono di più nella sicurezza e nell’industria degli armamenti. E il trend, se guardiamo alla pseudo-polemica di questi giorni, non s’inverte. Eppure, mentre il budget della Difesa diminuiva il resto dell’economia certo non cresceva, siamo in una fase di stagnazione virtuosa destinata a durare.

Ovviamente possiamo permetterci di tagliare la spesa militare perché ci pensano gli Usa a proteggere il resto del mondo libero. Ringraziamo il cielo che nel 2010 gli Stati Uniti abbiano speso, da soli, una cifra che ammonta al 43 per cento del budget militare globale, sei volte di più del colosso cinese. Obama ha ventilato i tagli, ha ordinato il ritiro dall’Iraq e l’inizio della exit strategy dall’Afghanistan ma nel 2010 negli Usa c’è stato un incremento tendenziale dello sforzo bellico rispetto al pre-2001.

Delle due l’una: o gli americani se ne fregano del deficit perché inseguono il loro progetto imperialista, come si ritiene volgarmente, oppure c’è un’altra soluzione alla sperequazione della spesa militare tra le due sponde dell’Atlantico (una suddivisione ingiusta degli impegni internazionali che la nostra classe politica e l’opinione pubblica sembrano ignorare): la spesa militare è un elemento decisivo per il funzionamento del sistema capitalistico (secondo i marxisti è uno dei modi per investire il surplus).

Quando gli Eurofighter, gli F16 e i Tornado italiani smetteranno di bombardare le coste della Libia non finiremo solo per rinnegare il principio del regime change e mettere di nuovo a repentaglio la nostra sicurezza nazionale (le incursioni dei caccia tricolori hanno colpito l’esercito libico sulla costa e ridotto la pressione migratoria che Gheddafi ha usato come arma contro l’Italia), ma faremo un altro danno, questa volta economico. Quando sganciamo le bombe sulle postazioni dell’artiglieria libica (quella che ha martellato i civili assediati a Misurata), partono nuove commesse belliche per un’industria che fino adesso è stata ai vertici della competizione globale. Aumentare la spesa militare non fa scendere l’occupazione e gli investimenti, se mai il contrario, e quindi in periodi di vacche magre può essere un modo per governare il conflitto sociale, ma vaglielo a spiegare.

Non è un caso che guardando agli Usa nell’ultimo secolo c’è sempre stata una forte correlazione tra l’aumento del budget militare, le guerre e la ripresa economica (oltre che la ricostruzione delle potenze sconfitte e di quelle alleate). La spesa militare, come altre forme di intervento pubblico, è uno dei modi per allontanare lo spettro della recessione. Dopo la Seconda Guerra mondiale, il senatore democratico Henry "Scoop" Jackson teorizzò una "santa alleanza" fra le grandi corporations dell’industria bellica e il potente sindacato AFL-CIO, nella convinzione che vincere la corsa agli armamenti con l’Unione Sovietica avrebbe significato arricchire il mondo operaio (la lezione di Jackson avrebbe influenzato i neoconservative, da Elliot Abrams a Max Boot).

La spesa militare quindi non è un magheggio volatile della finanza ma ha la spaventosa solidità produttiva di un vecchio carro armato. E quindi va bene un aumento degli investimenti pubblici nella sanità, va bene salvare l’istruzione e l’università, ma tralasciare questa voce del budget non è un favore fatto all’impresa e ai lavoratori. Senza considerare che stiamo analizzando un comparto in cui è più facile proteggersi dalla concorrenza estera (le commesse militari statali arricchiscono le imprese italiane) ed aumentare l’export (non facciamo solo mine anti-uomo, se proprio volete saperlo, ma anche tecnologia per rimuoverle). Vi dice qualcosa che la Rivoluzione informatica, prima di Google e di Microsoft, è nata nelle segrete stanze del Pentagono? E che continua da quelle parti?

Ora fate pure, diteci che siamo degli sporchi guerrafondai, degli sciacalli servi degli americani, dei bastardi che non hanno a cuore la vita dei poveri bimbi libici. Poi, dopo che avrete dato sfogo ai vostri sensi di colpa, se a qualcuno resterà la voglia di discutere della presenza militare italiana nel mondo (non delle milizie popolari padane), siamo qui per ragionare sul da farsi.