Continua il braccio di ferro tra Gheddafi e la rivolta
26 Febbraio 2011
Continua senza sosta il braccio di ferro tra il raìs Muammar Gheddafi e i suoi oppositori. In queste ore i ribelli, dopo la conquista di tutta la Cirenaica, hanno alzato il tiro e marciano in migliaia verso Tripoli per “liberare” l’ultimo vero bastione del regime. E potranno riuscirci nel giro di qualche ora, dato che al termine di una dura battaglia costata la vita ad almeno 23 persone, dopo Misurata, i rivoltosi hanno espugnato anche la città di al Zawiyah a cinquanta chilometri a ovest della capitale.
La loro avanzata verso la capitale, dove il leader è asserragliato con dieci fedelissimi nel suo bunker, sembra essere inarrestabile. Le notizie che arrivano dalla Libia sono confuse quanto drammatiche. Il fronte della protesta si allarga e con esso anche la repressione. Diverse città (di qualche ora la notizia di quello che è stato definito un vero e proprio “massacro” nella città di Zawia), infatti, sarebbero a rischio attacchi in queste ore.
Nella “battaglia finale” ingaggiata da Gheddafi un ruolo determinante lo gioca il controllo dell’informazione; stabilire infatti l’ammontare delle vittime – che oscilla fra le 300 dichiarate ufficialmente alle mille o duemila denunciate dalle organizzazioni umanitarie fino alle oltre 10mila indicate da altre fonti – è estremamente difficile e l’unica certezza è che gli scontri proseguono senza esclusione di colpi.
Intanto il colonnello – che continua a perdere ‘pezzi’ dopo che il capo dei servizi di sicurezza di Bengasi, il colonnello Ali Huowaidi, si è dimesso per unirsi ai rivoltosi – è tornato per la seconda volta a parlare in un’intervista, stavolta non in video ma al telefono, attraverso un collegamento con la tv di Stato, durante il quale ha ripetuto le sue accuse contro Al-Qaeda (che nelle scorse ore si è schierato a fianco dei dimostranti accusando Gheddafi di essere un “assassino di innocenti”) che “vuole mettere le mani sulla Libia” e Osama Bin Laden, a suo dire i veri ispiratori delle proteste, insistendo sul fatto che le sommosse in atto non rappresentano una vera rivolta popolare, ma sono alimentate dall’estremismo islamico e ha avvertito che se le proteste non accenneranno ad arrestarsi i rubinetti del petrolio verranno chiusi.
I leader di mezzo mondo hanno fermamente condannato Muammar Gheddafi per la violentissima repressione della rivolta che sta lacerando la Libia, ma fin’ora non hanno di fatto intrapreso azioni decise per fermare il bagno di sangue, data la portata delle conseguenze (economiche e non) che la vicenda potrebbe avere.
Tra i 27 dell’Europa c’è una spaccatura netta tra le posizioni “dure” di paesi come Finlandia, Svezia e Danimarca – che appoggiano sanzioni contro il leader libico –, e ancora, di Germania e Gran Bretagna e quelle “più articolate”, vedi l’Italia. Russia ed Unione Europea, intanto, unendosi alla condanna della violenza, hanno detto di essere pronte a fornire assistenza economica e di altro tipo al mondo arabo. I governi Ue, in particolare, stanno preparando "piani di contingenza" per chiudere lo spazio aereo libico, ma per farlo "ha bisogno in primo luogo di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu". L’idea di una "no fly zone" è una delle misure che la diplomazia internazionale sta valutando, mentre il governo britannico ha parlato di un possibile invio di forze speciali per trarre in salvo un centinaio di suoi cittadini “in pericolo” nel deserto libico. La Nato rimane immobile di fronte all’imperversare di questa vera a propria guerra civile: non ha alcun piano di intervento in Libia e non sembra aver ricevuto richieste in tal senso.
La posizione più critica (e criticata), neanche a dirlo, quella degli Stati Uniti. Il presidente Usa Barack Obama è intervenuto pubblicamente per la prima volta, condannando gli “inaccettabili” e “vergognosi” attacchi ai dimostranti che hanno fatto centinaia di vittime in 10 giorni ma è stato aspramente criticato per essere stato troppo morbido con Gheddafi. In un editoriale del Washington Post si legge che “finora l’amministrazione non ha voluto condannare direttamente Gheddafi, non gli ha chiesto di lasciare la guida del Paese, né ha minacciato sanzioni. Invece, ha ripetuto la stessa blanda formula per invocare moderazione e il rispetto dei diritti umani come già fatto in Egitto, Bahrein e in altri Paesi filo-americani”.
La cautela della Casa Bianca sulla crisi libica si spiegherebbe, secondo il portavoce della Casa Bianca Jay Carney, con il timore dell’amministrazione Usa che cittadini americani possano essere presi ostaggio dal regime del colonnello. Una cosa, ancora una volta, viene da domandarsela: è troppo sperare che il presidente Obama incarni un po’ di quella “fierce urgency of now” non in nome di una propria campagna politica, ma per il popolo libico?