Hermann Broch o della parola che si libra al di sopra del nulla
31 Maggio 2009
di Vito Punzi
Claudio Magris, ancora non troppo tempo fa, a proposito di Hermann Broch scrisse che tra gli scrittori della finis Austriae era rimasto in Italia "forse il meno conosciuto o comunque non conosciuto come meriterebbe". L’affermazione era allora particolarmente vera a proposito della produzione poetica e di quella teatrale, esigue rispetto all’opera saggistica e narrativa, eppure altrettanto investite da quell’unico grande fuoco generatore che ha caratterizzato l’intera avventura creativa dell’austriaco: un continuo cortocircuito, frutto dell’incontro tra poesia e conoscenza, tra forma e verità: "Scrivere significa per me voler conquistare conoscenza attraverso la forma, e una nuova conoscenza può essere creata solo attraverso un nuova forma. (…) Un’opera che non rappresenta una nuova conoscenza ha perso il suo autentico significato".
Così in una sua lettera all’amica Daisy Brody, il 25 novembre 1932, dunque all’apice della sua riflessione sul teatro e della sua produzione drammaturgica. A proposito dei testi teatrali di Broch, va dato atto a Roberto Rizzo di averli finalmente proposti al lettore italiano in una ben curata edizione ed è da questa sua produzione e dalle sue connesse riflessioni sulla contemporanea situazione della scena tedesca che vuol prendere le mosse questa breve introduzione alla raccolta poetica brochiana. Di seguito si cercherà di spiegare il perché.
Secondo una definizione dello stesso Broch, il teatro poteva essere distinto tra quello "borghese, nella vecchia accezione di naturalistico, buono e noioso", e quello "sperimentale e astratto come l’hanno presentato i russi e Bert Brecht". È lucido il giudizio su quest’ultimo, rimproverato per "un dogmatismo quasi ottuso": con la sua opera, Brecht è lontano ormai dalle originarie intenzioni didattiche, perché "privo dei valori più importanti della stessa pedagogia, e cioè quelli umani". Rispetto a quella realtà Broch tentò allora di darsi un obiettivo chiaro e importante, "convinto che il fine ultimo sia da ricercarsi come in passato nell’astrattezza greca, mentre il terreno che lo nutre resta pur sempre la base naturalistica sulla quale poggia".
Il richiamo al teatro greco non era casuale. Per il drammaturgo austriaco rinnovare la scena teatrale significava anzitutto ritrovare la strada che conduce al "’grande teatro’, un teatro dei grandi problemi umani", perché "il pubblico è composto da uomini, tesi dalla nascita alla morte, e la problematica dell’uomo è immutabile". Broch arrivò a parlare di strato sofocleo quale elemento che dovesse caratterizzare il suo Stildrama, dove per sofocleo doveva intendersi un dramma il cui protagonista, pur non comprendendo il significato del dolore, doveva accettare gli avvenimenti quali manifestazioni della realtà divina. È chiaro a questo punto quale e quanta potesse essere la sua lontananza da Brecht. Tuttavia, le rappresentazioni dei suoi scritti per il teatro non ebbero particolare fortuna.
Irrappresentabilità dei testi? Forse. Sempre decisivo e imprescindibile però è l’incontro tra un’opera e un suo potenziale interprete (il regista con i suoi attori). Ed è certo che il destino negativo di molte scritture teatrali sia da attribuirsi a quell’incontro, sbagliato o semplicemente mai avvenuto. Si pensi a L’espiazione, messa in scena una sola volta con Broch in vita, il 15 marzo 1934, allo Schauspielhaus di Zurigo. La pur esigua storia della sua rappresentazione si presenta infatti come oltremodo significativa. L’Epilogo, costituito essenzialmente dal "lamento funebre" affidato al coro delle madri, rappresenta nel testo la conclusione decisamente voluta da Broch perché strumento utile a trascendere, sulla scena, la concreta situazione storica. La stessa funzione venne da lui affidata all’elemento lirico anche nei romanzi, in particolare ne La morte di Virgilio. Tanto che alcuni critici, a proposito di questa sua opera, hanno parlato di "prosa lirica". Hannah Arendt, nel rilevare come quella definizione non fosse del tutto giusta, ha sottolineato piuttosto che lo stile dell’austriaco, "eccezionale nella sua tensione concentrata, mostra una maggiore somiglianza con i canti omerici".
Tornando a L’espiazione e alla sua "prima" zurighese, pur soddisfatto per il successo conseguito, Broch dovette lamentare, guarda caso, proprio il "taglio" dell’E p i l o g o, unitamente alle scene più propriamente liriche. L’austriaco protestò con il regista, Gustav Hartung, ma inutilmente. Tanto che anche le rappresentazioni successive tagliarono e trasformarono, riducendolo, il "lamento funebre" affidato alle madri. Destino ineludibile, dunque? Più semplicemente, costante tradimento. Per quanto l’Epilogo rappresenti, come ha osservato Rizzo, "una improvvisa e ingiustificata frattura stilistica" rispetto alle scene precedenti, nelle intenzioni dell’autore esso doveva rappresentare "l’epilogo e l’essenza stessa del dramma". La voce poetica che sulla scena doveva prendere corpo nelle otto donne immaginate a costituire il coro e nella "vecchia madre" chiamata a essere loro "guida", è voce che, piaccia o no, attraverso il "lamento funebre", per coloro che "inutilmente son morti" oppure "non sono mai diventati", lancia un grido ultimo di speranza, teso nella domanda di una strada percorribile per chiunque sia vittima del lutto. Questi i versi conclusivi della tragedia: "Noi, voci del futuro, portiamo le stelle, / invochiamo la lontananza più infinita, / invochiamo l’unità che ci è stata donata… / oh, vi si riveli del divino l’amorevole via".
Il richiamo alla "lontananza più infinita" sollecita una sottolineatura: l’interesse di Broch verso l’idea di infinito, così frequente nei testi poetici che qui si presentano. È chiaro il rimando a uno dei romanzi di Broch, il terzo della trilogia I sonnambuli, Huguenau o il realismo, anch’esso non a caso terminato in quell’anno, il 1932, apice di una creatività multiforme (il 22 aprile dello stesso anno l’austriaco tenne a Vienna la famosa conferenza Joyce e il presente. Di Hugenau o il realismo dunque, fondamentale modello di "romanzo sperimentale" in ambito linguistico tedesco, significativa è la riflessione sull’infinito da parte del Broch matematico, poiché elaborata all’interno di un più generale excursus storico dedicato alla progressiva disgregazione dei valori nella civiltà occidentale. "Certo la discussione medievale degli infiniti non si svolgeva sul terreno matematico – scrive l’austriaco –, ma l’infinità etica, come ben si potrebbe chiamarla, e quale si manifesta, ad esempio, nella sfera dei problemi riguardanti gli attributi infiniti di Dio, contiene tutte le questioni dell’infinito attuale e potenziale, presenta quella stessa struttura di regione estrema dove troviamo le antinomie e le difficoltà della matematica moderna".
Nello stesso romanzo si leggono pagine decisive dedicate a Lutero, al protestantesimo in generale, al rinascimento, dunque al cuore della cosiddetta "modernità" e non poche riflessioni avvicinano in questo senso Broch a Pavel Florenskij, matematico anch’egli, oltre che martire cristiano e suo contemporaneo. Il già citato tema del rapporto tra poesia e conoscenza rappresenta un nodo centrale dell’intera produzione di Broch (si rammentino i suoi saggi raccolti in Poesia e conoscenza) ed esso ritorna con frequenza quasi ossessiva nei testi che qui si propongono. Non mancano poi esplicite suggestioni ed esiti lirici la cui eco è particolarmente ricorrente in La morte di Virgilio.
In alcuni sonetti, sebbene scritti in epoca lontana rispetto alla redazione di quel grandioso romanzo, si potrà rintracciare l’ininterrotto cammino del poeta che attraverso la lingua cerca di dire la realtà, per superarla, fino alla "pura estasi del mai raggiunto mattino", fino a contemplare, "al di là del linguaggio", "il senso che legava il fanciullo alla madre", il sorriso dov’è contenuto "l’intero significato dell’infinito accadere". Non sono dunque così lontani, questi tentativi poetici, dall’esito sublime de La morte di Virgilio, coscienza piena di quell’irraggiungibile, compiuta realtà, che è significata dal verso e che dietro il verso s’innalza e svela il proprio valore: "Perché poesia è veggente attesa nella penombra, poesia è abisso che sa della penombra, è attesa sulla soglia, è comunione e insieme solitudine, è promiscuità e paura della promiscuità, casta nella promiscuità (…). Oh, poesia è attesa, non è ancora partenza, ma perenne congedo".
Quanto scritto, e qui citato, da Magris riferito all’intera opera brochiana vale ancor oggi, tanto più per la produzione poetica dell’austriaco, che certo non è stata per il nostro un’occupazione da nulla, visto che vi si è dedicato con una certa assiduità per quasi quarant’anni. Nonostante la sua costante frequentazione poetica e infine il pregevole assemblaggio, nell’ottavo volume dell’edizione Suhrkamp, risalente al lontano 1980, la germanistica nostrana non ha ritenuto finora la poesia di Broch degna di essere proposta al lettore italiano. L’approccio a parte della produzione poetica brochiana permetterà finalmente, ci si augura, di verificare come essa si sia nutrita dei temi e delle ossessioni presenti nel resto dell’opera dello scrittore austriaco (romanzi, saggi, testi teatrali).
La presente selezione comprende parte delle poesie di Broch pubblicate nel citato volume curato da Lützeler. Si è deciso cioè di pubblicare quei componimenti che costituiscono la prima parte della raccolta (la sezione ha per titolo Gedichte), distinti come sono dall’altra produzione poetica, altrettanto cospicua, ma evidentemente troppo condizionata da circostanze, se non da frammentarietà e incompiutezza. Inoltre, con l’obiettivo di proporre finalmente al lettore italiano il Broch alle prese con la scrittura in versi, si è deciso di inserire in nota solo i dati essenziali relativi alle singole composizioni, rimandando per le varianti all’edizione tedesca.
Introduzione a Herman Broch, Poesie, a cura di Vito Punzi, pp.5-12, Città Nuova Editrice 2009
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