Tar contro il Politecnico di Milano: “Inglese, no grazie!”

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Tar contro il Politecnico di Milano: “Inglese, no grazie!”

24 Maggio 2013

Questa storia del Tar che dà ragione agli insegnanti che hanno boicottato la costituzione di corsi in inglese al Politecnico di Milano è la cartina al tornasole di che tipo di ricerca si fa in Italia. Con la scusa un po’ da crusca ottocentesca che bisogna difendere l’italiano e la nostra identità dalla anglificazione forzata, un centinaio di prof si sono ribellati alla proposta di avere corsi in inglese. Probabilmente questa decisione avrebbe un effetto dirompente su una popolazione, come quella italia, che dall’uomo della strada alla media accademica, fa fatica a dire good morning.

Eppure il pidgin della ricerca internazionale, se vuoi attrarre cervelli oltre che formare cervelli da mandare nel resto del mondo, è proprio l’inglese, ma non c’è stato verso con il Tar, che stavolta ha interpretato la inedita parte del Bembo attento a preservare la cultura linguistica italica. Addio quindi alla proposta del Rettore di eliminare l’italiano dalle lauree specialistiche e dai dottorati. Questo sì che avrebbe determinato una selezione naturale dei meritevoli, cioè di chi è capace di interfacciarsi con il mondo della ricerca internazionale, non solo di guardare all’ombelico della provincia italica, con le sue baronie accademiche attaccate al volgare degli avi.

La spiegazione offerta dal drappello dei ricorrenti al Tar è stata che la scelta avrebbe inciso "in modo esorbitante sulla libertà di insegnamento e sul diritto allo studio". In realtà sarebbe diventato un problema di concorrenza, competizione e generazioni. Perché a quel punto sarebbe stato più facile attrarre ricercatori e docenti da altri Paesi del mondo, costringendo gli studenti ad adeguarsi: visto che ci si lamenta che non c’è lavoro l’unico modo per crearlo è diventare competitivi al massimo.

Mamma chioccia quindi tutela il diritto degli studenti al facilismo universitario dominante, dove mettere qualsiasi tipo di paletto a un’idea dell’istruzione universalistica è un’abitudine consolidata. Pensate a quei docenti ormai agé che magari si sarebbero trovati spiazzati davanti ai loro ricercatori che, da fare fotocopie e pronto soccorso didattico, di colpo avrebbero avuto la libertà di dialogare con il resto del mondo (sperando che almeno i ricercatori più giovani l’inglese lo abbiano studiato). In effetti, i corsi in inglese avrebbero marginalizzato l’italiano. Ma tranquilli, il nostro Paese è condannato alla marginalità e non è certo una questione linguistica.