Tempi duri per gli irakeni: storie di interpreti, cooperanti e rifugiati

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Tempi duri per gli irakeni: storie di interpreti, cooperanti e rifugiati

02 Luglio 2010

Nel 2003 Basim, poeta e traduttore, fu il primo ad andare incontro ai Marines americani che entravano a Mossul da nord, offrì loro dell’acqua fresca e quelli gli offrirono un lavoro da interprete a 150 dollari al mese, molto più dei 2 dollari che guadagnava come bibliotecario. Lui accettò perché il denaro gli faceva comodo per sposarsi, ma da lì a poco la fidanzata lo lasciò. Lui continuò a tradurre manuali dall’americano all’arabo ad uso dei poliziotti di Baghdad. Gli americani istruivano la polizia irakena insegnando ai funzionari a non pretendere tangenti e a non umiliare il prossimo. Ma quando vide le foto degli abusi di Abu Ghraib pensò “ma come, gli americani fanno il contrario di ciò che insegnano?” L’anno successivo gli capitò di comunicare ad alcuni detenuti di Abu Ghraib l’imminente scarcerazione. Uno di loro, passandogli vicino, gli sussurrò “Vi ammazzeremo tutti”. “Intendi gli americani?” “No, sto parlando di te”.

Un mese dopo trovò sulla porta di casa un foglio con versi del Corano, insulti, minacce, e l’intimazione a lasciare il suo lavoro di interprete entro una settimana. Alcuni giorni dopo sulla porta trovò un cd col filmato della decapitazione di Nabi, un suo collega. A quel punto la famiglia terrorizzata lo cacciò di casa, lui fu costretto a lasciare lì la moglie incinta e a nascondersi a Najaf. Quando la moglie partorì, Basim per vedere il bimbo tornò a Mossul di nascosto, violando il coprifuoco e rischiando di essere ammazzato dagli stessi americani. Quando riferì agli statunitensi la sua grave situazione e i pericoli che correva per visitare la famiglia che aveva bisogno di lui, non trovarono nulla di meglio che dirgli “puoi vivere nella base, e noi ogni sera ti porteremo a casa coi nostri mezzi militari”. Già, se qualcuno lo avesse visto scendere da un convoglio americano, la sua casa sarebbe andata in fiamme entro un minuto.

Nel 1976 Waddah, altro poeta e traduttore, aderì al partito Ba’ath per poter continuare gli studi: chi non lo faceva, trovava serie difficoltà a sopravvivere. Nel 1982, in piena guerra con l’Iran, gli proposero una promozione nell’ambito del partito. Per ottenerla avrebbe dovuto svolgere un semplice lavoretto, roba da niente: andare nelle retrovie e ammazzare alcuni disertori. Si rifiutò di farlo, dicendo “non sono un boia” e fu incarcerato.

Nel 1995 cercò di scappare in Turchia, ma i kurdi dell’Iraq settentrionale volevano troppi soldi per agevolargli la fuga. Lui allora si ritirò a Mossul, dove Saddam gli aveva donato un terreno, cosa che il dittatore faceva con tutti i suoi sudditi. Ma a Mossul la polizia lo catturò, lo bendò, lo fece salire su una macchina e lo portò in prigione a Baghdad. Dopo tre mesi di torture lo accusarono di essere una spia dei turchi e lo tennero in galera per un anno. All’arrivo degli americani fece il traduttore per loro dietro il compenso 20 dollari alla settimana. Fu visto in tv mentre faceva da interprete fra il governatore di Kerbala e un generale americano, e la cosa gli procurò più di un attentato.

Gli statunitensi gli diedero allora una pistola per difendersi ma un bel giorno, accortisi che andava in giro armato, gli chiesero il porto d’armi che lui non aveva, e dovette riconsegnare la pistola e lasciare l’incarico. Ma rimase nel mirino dei terroristi, che gli rapirono un parente, un bambino, e Waddah dovette vendere il pezzo di terreno per pagare il riscatto, con cui i terroristi finanziarono poi le loro attività. E’ lui stesso a trarre le conclusioni: “L’America ha fatto bene a liberare l’Iraq, ma quando si entra in un paese in cui la gente è abituata alla tirannia e teme la libertà, bisogna avere un chiaro programma psicologico per affrontare la situazione”.

Omar, saggista e insegnante, non entrò al servizio diretto degli americani ma scrisse un articolo su un giornale che gli statunitensi avevano fondato a Mossul, un bel saggio sulla democrazia e la libertà che fu anche premiato ad un concorso letterario. Questo bastò per procurargli insulti e minacce da parte dei suoi stessi studenti e superiori, oltre a qualche colpo di arma da fuoco. Un giorno un commerciante che stava entrando a casa sua fu freddato da una raffica di mitra: lo avevano scambiato per Omar. Lui ritiene che agli irakeni non si possa donare la democrazia così come si regala una maglietta perché, piaccia o no, l’opinione pubblica è refrattaria: i moderati sono convinti che gli USA siano intervenuti in Iraq per rubare il petrolio e gli estremisti ritengono che lo abbiano fatto per distruggere l’Islam. In altre parole: la libertà è stata offerta agli irakeni ma loro l’hanno rifiutata.

Nel 2003 Uday gestiva un negozio in una base americana. Un giorno, uscito dalla base, fu circondato da elementi ostili e uno gli sparò alla testa. Perse un occhio ma sopravvisse. Ora ha subito ventiquattro delicate operazioni chirurgiche ed ha ottenuto asilo politico negli USA, dove anche la famiglia lo ha raggiunto dopo tre anni di separazione. Ma non è facile sopravvivere coi 761 dollari dell’assegno mensile di disabilità. Secondo l’International Rescue Committee, un ente che si prende cura dei rifugiati a New York, molti immigrati irakeni stanno cadendo nella spirale della povertà. Finora più di 30.000 cittadini irakeni hanno trovato rifugio negli USA e 1.500 hanno ottenuto asilo politico. Molti di loro lavoravano come medici, insegnanti, tecnici e interpreti, spesso al servizio degli americani, ma ora negli USA hanno scoperto che questo non basta e chi vuole sopravvivere deve entrare nello spietato mercato del lavoro e competere duramente con chi ha maggiori titoli da far valere.

E così accade che Nur, ferita a Bassora nel 2005 nell’attentato mortale al giornalista Steven Vincent per cui lavorava, ora in America fa la receptionist, anche se in Iraq era un’affermata manager.