Teniamoci gli immigrati, deportiamo  i multiculturalisti

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Teniamoci gli immigrati, deportiamo i multiculturalisti

27 Maggio 2008

Vediamo un po’, che cosa ne è stato dell’immigrazione come tema forte della campagna presidenziale in America? 

Nelle fasi iniziali della maratona elettorale e all’altezza dei primi stati – Iowa, New Hampshire, Carolina del Sud – i media non facevano che ripeterci che l’immigrazione era al primo posto nelle priorità degli elettori. Era impossibile seguire un dibattito repubblicano dove la questione non tenesse banco per la maggior parte del tempo. E quando Hillary Clinton si è mostrata intenzionata ad appoggiare la proposta di rilasciare la patente di guida agli immigrati clandestini nello stato di New York, si è parlato di un clamoroso passo falso, e la senatrice ha passato settimane intere a chiarire il senso delle sue affermazioni.

La gente, ci veniva detto, ne aveva fin sopra i capelli degli immigrati clandestini, in particolare di quelli provenienti dall’America Latina. Gli extracomunitari rubavano i posti di lavoro, favorivano il ribasso dei salari, riempivano i commissariati e le carceri, rifiutandosi di imparare l’inglese e di assimilarsi come i gruppi di immigrati di un tempo. Stando all’opinione generale, un candidato presidenziale che avesse la minima chance di venire eletto avrebbe dovuto assumere posizioni forti rispetto a questi alieni fuorilegge.

Eppure, in qualche modo, il problema sembra aver perso il suo mordente, anzi è quasi scomparso del tutto. Il probabile candidato repubblicano, John McCain, non è certo un fautore di politiche restrittive, e non urla “chiudiamo le frontiere!” sputando fuoco dalla bocca. Anzi, McCain è piuttosto il candidato più vicino a un’ipotesi di riforma globale della normativa sull’immigrazione tale da offrire al maggior numero di immigrati senza documenti la possibilità di acquisire la cittadinanza, laddove certi requisiti siano soddisfatti. Quanto ai Democratici, quando è stata l’ultima volta che avete letto il termine “immigrato clandestino” in un articolo sulla signora Clinton o su Barack Obama?

Insomma, che cosa è successo?

Ebbene, la mia teoria è che i cittadini americani sono in sostanza favorevoli all’immigrazione, ma lo sono in modo ambivalente. Questa ambivalenza si rispecchia nei sondaggi, che naturalmente forniscono risposte diverse a seconda delle questioni poste. L’anno scorso, per esempio, un sondaggio di CBS News chiedeva: “bisogna perseguire e deportare gli immigrati clandestini oppure no?”. Il 69% degli interpellati era a favore della deportazione. Quando gli stessi intervistatori domandarono alle stesse persone come agire nei confronti degli immigrati clandestini che avessero vissuto e lavorato negli USA per almeno due anni, offrendo un’alternativa specifica alla deportazione, soltanto il 33% si è dichiarato a favore della deportazione; il 62% era dell’avviso che questo tipo di immigrati meritasse la possibilità di mantenere il proprio impiego e in prospettiva di regolarizzare la propria posizione.

Quando un sondaggio indipendente dell’agenzia Gallup ha posto una domanda analoga, ma offrendo ben quattro alternative, soltanto il 13% si è espresso in favore della deportazione, mentre il 78% ha dichiarato che agli immigrati clandestini va concesso il diritto di mantenere il loro impiego e di avviare una pratica di naturalizzazione.

In altre parole, a tutto dispetto dei discorsi altisonanti che per mesi abbiamo sentito in televisione, alla radio e letto sui blog, gli Americani non sembrano aver perso la loro fiducia nel melting pot. Perché dovrebbero, poi, dal momento che gli indizi più svariati confermano che l’assimilazione procede a passo spedito? È vero, spesso si ha l’impressione opposta, ma sappiamo tutti che spesso l’apparenza può ingannare.

I media ci nutrono regolarmente di dati aggiornati sull’immigrazione dal Messico, e buona parte di questi dati si compone di stime “medie” sulla padronanza della lingua inglese, sul reddito, sulla proprietà di abitazioni, sull’istruzione, ecc. Nell’assimilare questi dati, però, è importante non dimenticare che l’immigrazione dall’America Latina è tuttora in corso. Le medie fornite sono istantanee di un flusso in movimento, e di conseguenza aiutano ben poco a misurare l’assimilazione. Per farlo in modo adeguato sarebbe necessario valutare in che modo la qualità della vita di chi emigra negli Stati Uniti evolve sul lungo periodo, e soltanto studi diacronici incentrati sul percorso di singoli individui può fornirci queste informazioni.

Limitandoci a seguire le medie rischiamo di farci un’idea gravemente distorta di chi impara l’inglese, di chi abbandona la scuola, o di chi invece esce dalla povertà. Per quale ragione? Perché le statistiche globali relative ai nuovi arrivati, lavorando con grandi cifre medie, finiscono per mascherare i progressi compiuti dagli immigrati di precedenti ondate.

Dowell Myers, un demografo della University of Southern California, l’ha definita “fallacia di Peter Pan”. “Molti di noi, erroneamente, immaginano che gli immigrati siano come Peter Pan”, sostiene Myers, “eternamente prigionieri della loro condizione di nuovi arrivati, gente che non invecchia, che non migliora la propria posizione economica e non si assimila mai”. A occhi ingenui, spiega, “il numero crescente di cittadini nati all’estero significa che la nazione rischia di cadere in balia di masse sempre più grandi di individui eternamente spaesati”.

La realtà, invece, è che stando a quanto mostrano gli studi diacronici gli immigrati di origine latinoamericana vivono un reale progresso socio-economico. Tale progresso è più lento in alcune aree, per esempio il livello di istruzione degli immigrati adulti, e più rapido in altre, come il reddito e la proprietà di abitazioni. Non c’è però alcun dubbio che nel corso del tempo si producano sia l’assimilazione che la mobilità sociale in ascesa.

Per quanto riguarda l’assimilazione linguistica, che è uno dei fattori cruciali, dal momento che equivale a un’abilità lavorativa capace di risolversi in salari più alti, lo schema storico è il seguente: la prima generazione impara l’inglese quanto basta per cavarsela, ma preferisce la lingua madre. I figli degli immigrati nati in America crescono in famiglie dove si impara a comprendere la lingua madre dei genitori e talvolta a parlarla, ma preferiscono l’inglese. Una volta cresciuti danno vita a famiglie in cui l’inglese è la lingua predominante.

Tutti i dati inducono a credere che i latinos stiano seguendo questo schema. Secondo dati Census del 2005, solo un terzo degli immigrati latinoamericani stabilitisi negli Stati Uniti da meno di dieci anni parla un buon inglese. La proporzione, però, sale al 75% nel caso di individui immigrati da trent’anni o più. Può darsi che il bilinguismo sia oggi più diffuso tra i loro figli, ma niente dimostra che nella seconda generazione lo spagnolo sia la lingua predominante. Il censimento del 2000 ha rilevato che il 91% dei figli di immigrati e il 97% dei nipoti parlano un buon inglese.

Se la cultura americana è oggi sotto assedio, non è da parte di immigrati incapaci di assimilarsi, ma di élite liberali che rifiutano il concetto di assimilazione. Per i multiculturalisti, in particolare quelli di estrazione accademica, “assimilazione” è una brutta parola. Alcuni adottano un quadro valoriale neutro per evitare di dover giudicare una cultura superiore o inferiore a un’altra. Altri rigettano del tutto il paradigma assimilazionista, sostenendo che gli Stati Uniti non sono sempre stati all’altezza dei loro ideali. L’America ha sterminato gli indiani e ha ridotto i neri in schiavitù, questo è il ragionamento, e questa storia crudele ci toglie ogni diritto di imporre un sistema di valori ad altri.

I conservatori che premono per sigillare le frontiere in risposta a queste élite di sinistra se la prendono con le persone sbagliate. Non sono gli immigrati il problema. Il problema sono i multiculturalisti militanti che vogliono trasformare l’America in una sorta di blanda federazione di gruppi etnici e razziali. La destra deve continuare a opporsi a chi sostiene l’istruzione bilingue, ai professori di “Chicano Studies” di orientamento antiamericano, alle schede di voto in spagnolo, alle aree in cui l’assegnazione di collegi elettorali è distorta dall’appartenenza etnica, ai programmi governativi su larga scala promossi da attivisti messicani e tutto il resto. Non sono però le donne che aiutano i nostri bambini a fare il ruttino o cambiano le lenzuola nei nostri alberghi a creare i problemi, né tanto meno gli uomini che raccolgono insalata a Yuma e costruiscono case a Iowa City.

Teniamoci gli immigrati e deportiamo il corpo docente della Columbia University.

 Jason L. Riley, membro del comitato editoriale del “Wall Street Journal”, è autore di Let Them In: The Case for Open Borders [Lasciamoli entrare: le ragioni a favore dell’apertura delle frontiere], in uscita in questi giorni.

Traduzione di Francesco Peri