Thailandia, la comunità internazionale non sa ancora da che parte stare

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Thailandia, la comunità internazionale non sa ancora da che parte stare

19 Maggio 2010

I blindati che si muovono minacciosi per le strade. Le auto in fiamme e le vetrine dei negozi in frantumi. Le ambulanze che trascinano via i feriti e la gente che corre da una parte all’altra cercando di sfuggire alle pallottole. E’ la fotografia di una Bangkok che oggi sembra molto lontana da quelle immagini da cartolina che riempivano, fino a qualche tempo fa, le fantasie occidentali.

Dopo la tragica conferma della morte di Fabio Polenghi, il fotoreporter italiano rimasto colpito allo stomaco durante un blitz delle forze armate, la comunità internazionale ha finalmente puntato gli occhi sul conflitto in Thailandia, chiedendosi da che parte stare e cercando di capire chi sono "i bad guys". Ma comprendere che cosa sta succedendo il questo Paese immerso nel caos, intrappolato tra la guerriglia urbana delle “camicie rosse” e la repressione delle forze governative e dell’esercito, non solo significa conoscere i suoi protagonisti ma anche le sue contraddizioni e i paradossi interni.

Quella che sta accadendo in Thailandia è sia una guerra di classe che uno scontro politico. In questo Paese, le differenze sociali sono in primo luogo determinate geograficamente: più dei due terzi dei tailandesi vivono ancora nelle campagne e oltre la metà di loro sono poveri. Nelle città si addensa invece la nuova classe media, ancora troppo impreparata e incapace di diventare un veicolo efficace della democrazia. Un conflitto sociale che dura ormai da decenni.

La maggior parte della popolazione urbana, fortemente conservatrice, sostiene l’attuale governo e i suoi tentativi di frenare le riforme. Quella rurale, al contrario, appoggia il premier deposto, Thaksin Shinawatra, un magnate carismatico e molto popolare (anche grazie al controllo delle televisioni di sua proprietà), che ha una visione più aperta al mercato e alla globalizzazione che però non piace alla borghesia e ai ceti benestanti. Thaksin fu eletto per la prima volta nel 2001 (e rieletto nel 2005) sulla base di un progetto populista che proponeva un sistema sanitario più accessibile a tutti, la cancellazione del debito internazionale e meno potere alle elite del Paese. L’ex leader venne votato nelle aree rurali e povere, specialmente quelle del Nord, mentre al Sud – fortemente musulmano – ottenne pochissimi consensi.

Nelle strade di Bankok, intanto, continua a scorrere il sangue. Da una parte, ci sono le camicie rosse, le forze che sostengono il leader deposto nel 2006 in seguito ad un colpo di Stato perché accusato di corruzione e ora in esilio a Dubai (anche se è tecnicamente un cittadino del Montenegro). Da oltre 7 settimane, le forze antigovernative hanno invaso le strade della capitale per chiedere le dimissioni del governo dell’attuale premier, Abhisit Vejjajiva, perché considerato illegittimo e fortemente dannoso nei confronti delle classi più povere. Secondo le organizzazioni umanitarie, dal 2008 avrebbe chiuso oltre 200 siti considerati “scomodi”.

Le camicie gialle, invece, rappresentano i fautori dell’attuale governo, sostengono l’apparato militare e si definiscono principalmente pro-monarchici. In Thailandia, infatti, la monarchia è intoccabile (parlare male della famiglia reale comporta la lèse majesté, l’accusa di oltraggio alla Corona e una pena detentiva) ed è il simbolo della transizione tra la dittatura militare e la democrazia (anche se, in realtà, ha sempre appoggiato ogni golpe militare avvenuto durante i suoi 64 anni di regno). Ma Bhumibol Adulyadej oggi ha 82 anni e da mesi si trova in ospedale e il suo ruolo nella vicenda è ancora incerto: da quando sono scoppiati i tumulti, infatti, ha solo fatto un discorso alla Nazione in cui non ha neppure menzionato le proteste. Il governo, intanto, ha approfittato della confusione per accusare i leader della protesta di star complottando contro la monarchia.

Ma le questioni di palazzo non finiscono qui. Il suo successore, il principe Maha Vajiralongkorn è considerato una delle figure meno amate in tutta la Thailandia, in primis per la sua particolare eccentricità (da un video in cui la terza moglie compare in topless in una cena ufficiale alla concessione di un rango militare al barboncino Fu Fu che, talvolta, siede a tavola tra gli invitati durante le gale di palazzo). Per di più, l’erede al trono da tempo è legato in affari con Thaksin, un fatto che, con molta probabilità, lo vedrebbe al fianco delle camicie rosse in caso di guerra civile, incrementando così le tensioni sociali.

A complicare ancora di più la situazione sono le fazioni interne ai due gruppi contrapposti. “E’ difficile puntare il dito in qualche direzione. E’ molto più semplice puntarlo in varie direzioni” afferma Benjamin Zawacki, un dipendente di Amnesty International. Infatti, sarebbero consistenti le voci che vedono il governo diviso nella vicenda (lo stesso ministro degli Esteri, Kasit Piromya, sembra appoggiare la causa delle camicie rosse), così come le forze armate (seppur tecnicamente a fianco di Abhsit, alcuni vertici militari sostenitori di Thaksin – ex tenente della polizia – avrebbero ingaggiato del personale di sicurezza per proteggere le camicie rosse).

Secondo l’Esecutivo thailandese, poi, a causare le violenze scoppiate negli ultimi giorni sarebbero stati dei “terroristi” infiltrati nel movimento delle camicie rosse, una forza che si definisce pacifista, disarmata e contraria a qualunque forma di terrorismo. La denuncia della presenza di terroristi negli scontri, in realtà, è uno stratagemma che beneficia entrambe le parti: da un lato il governo, che può utilizzare il terrorismo come pretesto per usare la violenza contro i manifestanti, e dall’altro le camicie rosse che possono così negare ogni responsabilità per le violenze.

Nell’arco di solo 3 giorni di dure contestazioni, oltre 37 minifestanti sono morti e 239 sono rimasti feriti. Dall’inizio dell’occupazione del centro di Bangkok da parte delle camicie rosse di un mese e mezzo fa, invece, il bilancio complessivo è di 71 morti e oltre 1.150 feriti. Stamattina è scattata l’operazione militare per sgomberare il presidio dei manifestanti nel cuore di Bangkok: il governo ha decretato la pena di morte per i ribelli. I militari, che avevano ricevuto l’ordine di usare le armi se necessario, non hanno dubitato di aprire il fuoco. Il risultato: altre 6 vittime, tra cui il fotografo italiano, e una cinquantina di nuovi feriti.

La capitale tailandese è diventata una città fantasma e, dopo l’ennesimo rifiuto del governo di accettare la tregua, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon continua a fare appello per il fine delle violenze e a chiedere, inutilmente, il rilancio dei colloqui. A perderci di più, però, è il Paese intero: l’industria turistica – già malconcia dopo 3 anni di proteste – è in forte calo e gli investitori internazionali iniziano a dubitare della sua ripresa. Oggi l’insicurezza non solo regna nelle strade di Bangkok ma anche nel futuro della Thailandia intera.