The Assassination of Theo van Gogh

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The Assassination of Theo van Gogh

14 Agosto 2011

Prologo. Il 2 novembre del 2004 il regista Theo van Gogh viene assassinato nei pressi dell’Oosterpark ad Amsterdam, da Mohammed Bouyeri, un marocchino legato al gruppo terroristico Hofstad con base all’Aia. Muore perché ha violentemente contestato la religione islamica. Si scoprirà che la cellula jihadista aveva in mente di colpire altri intellettuali e uomini politici olandesi, come Geert Wilders e Ayaan Hirsi Ali. E’ il culmine di un decennio travagliato in cui l’Olanda che predicava la tolleranza scopre la crisi del multiculturalismo, quell’idea di un’eguaglianza forzosa tra i popoli che, ponendo sullo stesso piano le differenze etniche, religiose e culturali, con la pretesa di omogeneizzarle, finisce invece per amplificarle, indebolendo la certezza delle regole e dei valori costituenti la tradizione storica arancione; nel relativismo culturale che ne deriva fioriscono gli essenzialismi, come il revival islamico, irriducibile all’assimilazione ed esposto al rischio di involuzioni violente di stampo fondamentalista. Per il turista in cerca di emozioni forti, Amsterdam resta il grande luna park ricco di trasgressioni frequentato ogni anno da decine di migliaia di persone ignare della storia che ci accingiamo a raccontare ma ricordare l’omicidio di van Gogh, attraverso piccoli ritratti frutto di un reportage lungo una settimana, è un modo per capire se la metropoli delle croci di Sant’Andrea rimarrà quello che è, un disordinato ma vitale crogiolo di razze e culture, oppure  sta evolvendo verso un superamento della società "plurale" dai contorni ancora poco chiari e non sempre rasserenanti. Il nostro viaggio prende le mosse da una visita a De Schreeuw, la scultura che commemora la morte di Van Gogh nell’Oosterpark, esaltando il valore della libertà di parola, per descrivere la Amsterdam dei balocchi e quella bruna delle periferie, il fenomeno Wilders e il successo delle "nuove destre" antislamiche, le colpe del passato coloniale e i risarcimenti di quei secoli ormai lontani che continuano a pesare, forse troppo, sulla coscienza dell’Olanda.

Un concerto al Melkweg.
“Confusionalism”, urla Jello Biafra (ex Dead Kennedys) travestito da chirurgo pazzo sul palco del Melkweg, il grande palazzo dei concerti in una stradina laterale di Leidseplein, e la parola confusione si adatta bene ad Amsterdam, la città degli opposti che non si attraggono, delle differenze che balzano subito agli occhi, di un ipertrofico ego collettivo che si muove ambiguamente tra i canali della città vecchia e nel formicolio notturno del Red Light District. Ma né delle sex workers né dei coffee shop vogliamo parlare, se mai di politica, società e cultura, per capire se l’Olanda rischia di finire travolta dal peso dell’immigrazione oppure, nonostante tutto, il welfare e il "multiculti" riusciranno a reggere l’usura del tempo, lo sfilacciarsi lento ma inesorabile dell’economia legato alla crisi economica, la competizione di forze politiche e di nuovi leader divenuti popolari sull’onda di parole d’ordine che fanno a pugni con la storia del Paese dal dopoguerra: chiudersi invece di aprirsi, noi prima di loro, l’Olanda prima di tutto. Nella sua Guantanamo School of Medicine, il mattatore Biafra, granguignolesco, dalla corporeità straripante ed eccessiva, racconta la sua verità su Amsterdam in un assurdo delirio poetico (spoken poetry), che fa nostalgicamente il verso ai noglobal, ai tipacci del blocco nero e all’hardcore punk anarchico: una verità prevedibile e un po’ raffazzonata – Wilders è un “fascista” – ma di cui vogliamo salvare, come punto di partenza, quella definizione, confusionalismo, buona ad affrescare lo sfaccettato e colorato spettacolo urbano sotto il cielo perpetuamente grigio della Amsterdam estiva.

La smemorata di De Pijp. Lois ha 34 anni e lavora come consulente aziendale in una grande corporation; mesciata e con la sigaretta slim tra le dita sorseggia un cocktail ad un tavolino di un bar del Pijp, quartiere fighetto di Amsterdam, alieno da turismo drogato e sessuale, anzi dai turisti in genere (e quindi da visitare assolutamente). Lois si definisce un’elettrice di destra ed è convinta che l’attuale governo cristiano-democratico sia debole: "il problema dell’immigrazione," sentenzia, "si può risolvere solo costringendo gli stranieri, i musulmani in particolare, ad imparare la lingua olandese e a rispettare la tradizione storica e i valori del nostro Paese". Nobilissime intenzioni, anche se poi, quando le chiedi indicazioni su come arrivare nell’Oosterpark, Lois neanche sa che nel parco c’è De Schreeuw, la grande scultura dedicata al repubblicano e libertario van Gogh, ammazzato per strada una mattina in cui era uscito di casa in bicicletta per andare al lavoro come ogni giorno, freddato con otto colpi di pistola prima che il suo carnefice cercasse di decapitarlo e, non riuscendo nel suo intento, gli infilasse un paio di lame nello stomaco, accompagnate da un foglietto scritto a mano in cui Bouyeri rivendicava l’omicidio del regista e annunciava la prossima vittima, la scrittrice dissidente somala Ayaan Hirsi Ali (non sentendosi più al sicuro in Olanda dopo l’assassinio di van Gogh, Hirsi Ali ha fatto le valigie ed è partita per l’America, dove risiede sotto l’ala protettiva dell’American Enterprise Institute). Insomma, la rampante Lois ha gioco facile quando chiede che gli immigrati accettino le regole del Paese in cui vivono ma forse avrebbe dovuto sapere che Amsterdam ha onorato van Gogh, invece di consultare frettolosamente il suo Blackberry quando le chiediamo dov’è De Schreeuw.

Il monello di Amsterdam (Het Lieverdje).
Prendi il signor Gino che ha sessant’anni, di mestiere fa il venditore di hot dog crucchi e sembra un perfetto batavo, con la sua bancarella arancione sistemanta nel centro di piazza Spui, a un tiro di schioppo da Het Lieverdje, “il monello di Amsterdam”, la statua dell’adolescente che fa tanto Rusty il selvaggio e ricorda la storia dei Provos, delle occupazioni delle case, il sogno libertario del movimentismo non disfattista degli anni Settanta. Gino è arrivato in Olanda dagli Abruzzi dopo la guerra, nella prima fase dell’immigrazione che oggi ha trasformato la città sul Singel in una metropoli dove la metà della popolazione non è olandese. I primi ad arrivare furono proprio gli italiani come lui, che prima ha fatto l’operaio edile, poi il fruttarolo e adesso lo spacciatore di hot dog. Un self made man che riduce Van Gogh a una caricatura, “era uno zozzone”, spiega, "sai che ti dico? ha esagerato: se ogni giorno mi dicessero che sono uno a cui piace inchiappettare le capre, come faceva van Gogh quando parlava degli islamici, anche io reagirei”. Questo emigrato italiano che parla fluentemente cinque lingue ed è rimasto ancorato a una visione paleo-conservatrice della sinistra, non riesce a nascondere il suo attaccamento al welfare olandese che gli ha dato una casa popolare, un lavoro, l’opportunità di crescere e far studiare i suoi figli che oggi fanno uno il medico e l’altra l’insegnante. Idealizza la prima ondata dell’immigrazione europea nei Paesi Bassi, “quando gli olandesi giravano con gli zoccoli ed erano tanto poveri che non mangiavano, ma c’era lavoro”, ricorda anche la seconda fase, quella frutto della decolonizzazione, che raggiunse il suo culmine negli anni Ottanta, "i Surinami", come li chiama lui, i figli dei dominions olandesi, i creoli fatti schiavi in Africa e trapiantati in catene come forza lavoro in Sud America, ma anche gli indonesiani dopo l’indipendenza voluta da Suharto, molti dei quali, gli ex dominati, ancora parte integrante del Regno e quindi forniti di regolare cittadinanza. Enormi quartieri e intere nuove aree urbane di Amsterdam, come Gaasperplas, dove abbiamo trovato un residence economico in cui fermarci a dormire, sono il frutto della fantasia distorta dell’urbanesimo a nido d’ape di allora ed ospitano la grande comunità afro e indonesiana a cui la casa regnante olandese ha offerto un’occasione come risarcimento per la rapina coloniale. Infine sono arrivati i turchi e i marocchini ma qui Gino glissa, sorride in modo strano, riconosce che sono tanti e che figliano a meraviglia, ma alla fine, dice, "se si adatteranno come ho fatto io non avranno problemi" e in quella parola, adattarsi, c’è un sofferto non-detto, la memoria di chi ha dovuto lasciare la sua terra d’origine e ingoiarne di rospi. Più tardi, quando finalmente arriviamo davanti a De Schreeuw, seduti sulle panchine dinanzi alla scultura che raffigura il profilo di un uomo che urla, ci siamo solo noi e molte donne con il velo e i loro bambini che giocano. L’impressione è che Gino non abbia voluto raccontarci fino in fondo tutto quello che sapeva.

"Valor, Resolution, Mercy". Gloria sembra avere le idee più chiare sui simboli della storia patria: quando le chiediamo informazioni fermandola per strada indica un punto sulla mappa della città, il punto esatto in cui van Gogh venne ammazzato. "Van Gogh era uno che diceva come stanno le cose. Non aveva paura di prendersela con i politici. Era un’artista, non un politico. Non come Wilders che usa la paura dei musulmani per avere più voti. Van Gogh era un modello per noi giovani. Anche Hirsi Ali lo è. Il nostro governo si è dimostrato debole quando ha permesso che Ayaan lasciasse l’Olanda. In ogni caso io non mi sento razzista. Per quanto mi riguarda servo da bere a tutti, islamici compresi”.

Il discorso di Oscar. Quando entriamo nell’Oosterpark a darci l’ultima indicazione per arrivare a De Schreeuw è Oscar, un 35enne che attualmente insegna in una scuola per bambini con disturbi di pronuncia, avendo avuto anch’egli problemi di balbuzie da ragazzo che adesso lo perseguita un po’ meno perché ha imparato a controllarla. Oscar ha madre olandese e babbo siciliano, è venuto a vivere ad Amsterdam 15 anni fa ed è riuscito a ottenere con grandi difficoltà una casa popolare (social housing) dove paga un affitto di 450 euro, molto poco visto il mercato immobiliare cittadino congestionato e salatissimo. Lui l’ha spuntata e ora aspetta un posto di logopedista che stenta ad arrivare perché la crisi economica ha stretto in una morsa anche l’Olanda e il mercato del lavoro non offre più le occasioni di una volta. Anche Oscar difende con le unghie il welfare arancione, quel che resta dei faraonici progetti di “Father Drees”, il padre della patria socialdemocratica, l’uomo che dopo la Seconda Guerra mondiale diede all’Olanda un sistema previdenziale innovativo e forti garanzie per tutti i cittadini (istruzione, lavoro, eccetera), anche se le politiche attuali del governo vanno in un’altra direzione: per dare la casa ad Oscar si è scelto di tagliare i fondi destinati agli ultimi arrivati, passando dall’inclusione alla selezione degli immigrati. “Il mio problema non sono i turchi e i marocchini,” dice, “fanno un sacco di figli, questo è vero, ma lo spettro della islamizzazione serve a politici come Wilders per evitare di affrontare i problemi veri che sono la casa e la disoccupazione”. Van Gogh, secondo Oscar, “era un chiacchierone (big mouth)”. Questa evidente sottovalutazione della minaccia terroristica che ha colpito l’Olanda dopo l’11 Settembre può avere due spiegazioni: la prima è che il miraggio di Eurabia sia scolorito davanti al tonfo del capitalismo finanziario degli ultimi anni, la seconda è che gli olandesi, in particolare quelli che credono agli ideali del "multiculti", ignorino che anche nel loro Paese è in atto uno scontro di civiltà, che non è finito anche se si è attutito dopo l’omicidio van Gogh. Dopo l’arresto di Bouyeri, la polizia olandese sgominò una cellula terrorista, la banda Hofstad, che è stata definita una costola del fondamentalismo nordafricano e che per prassi e ideologia è riconducibile al terrore qaedista. Durante le operazioni per sradicare il male, due dei militanti della banda si rinchiusero nella loro casa all’Aia, armati fino ai denti, e prima che la polizia avesse la meglio trascorse un lungo giorno di assedio. Ci stiamo lasciando il peggio alle spalle oppure, come dice Geert Wilders, il peggio deve ancora arrivare? Oscar se ne va in bicicletta senza darci una risposta e pensando un po’ troppo ai fatti suoi, e restiamo a cazzeggiare davanti De Schreeuw fumandoci sopra, in memoria di un uomo, van Gogh, che aveva dedicato il suo blog all’arte del fumatore, avendocela a morte con il salutismo, con il buonismo, con il politicamente corretto di una società in cui, secondo lui, multiculturale fa rima con fallimentare.

La batavina di Piazza Dam. Helena è una vera olandese sangue e latte, fredda come il ghiaccio e poco incline a parlare con i turisti. E’ la prima vera elettrice del PVV che ci capita a tiro, non nel countryard dove sventolano le bandiere olandesi ma nella centralissima e cosmopolita Piazza Dam. “Wilders ha ragione da vendere quando dice che dobbiamo fermare l’immigrazione in Olanda,” dice mentre ci serve un pessimo caffè, “non sto parlando di quella dagli altri paesi europei o dalle nostre vecchie colonie, no, parlo proprio dei turchi e dei marocchini. Io ogni mattina mi alzo e vengo a lavoro, pago le tasse e rispetto le regole. L’Olanda è il mio paese e ci tengo che resti il posto dove sono cresciuta e sono cresciuti i miei genitori. Wilders ha ragione, come aveva ragione Theo van Gogh: gli islamici vengono qui ma non vogliono lavorare; chiedono una casa e gliela diamo, gli apriamo le nostre scuole, i nostri ospedali, i trasporti, ma io sono stanca di pagare tutto questo con le mie tasse. I marocchini stanno rovinando questa città: controllano tutti i traffici illegali, lo spaccio, rubano, sequestrano, non hanno rispetto per le donne; io sono una donna e voglio essere rispettata. Loro pensano di venire a vivere in Marocco ma l’Olanda non è il Nordafrica. Ne ho abbastanza di loro”. Lo dice con rabbia, senza scendere nei dettagli, con quel verso gutturale che serve ai nativi come segno di riconoscimento fonetico, per far capire all’interlocutore che hanno davanti un vero discendente dei batavi. Sembra quasi che se fosse lei a decidere la politica del governo sarebbero altri a doversi preoccupare.

Operaismo anti-islamico. Gli operai che lavorano in un cantiere sotto il Bijenkorf difendono Wilders, il PVV, la politica euroscettica delle “nuove destre”. Dicono che i socialisti hanno gestito in modo clientelare i fondi europei, ce l’hanno a morte con Bruxelles e le politiche migratorie imposte dall’Europa che hanno reso l’Olanda l’anello debole della catena, il Paese più esposto all’immigrazione dell’Unione, troppo piccola per accogliere tutti e con un sistema, “il multiculturalismo”, spiega uno di loro, che ormai “non funziona più”. “Turchi e marocchini fanno i comodi loro e il governo olandese e l’Europa non fanno altro che spostare denaro verso i musulmani disoccupati, per sfamare loro e le famiglie rimaste nelle nazioni di origine”. Hans ci spiega perché con i turchi c’è un problema di doppia fedeltà: “Molti giovani turchi con passaporto olandese alla maggiore età vengono richiamati in patria da Erdogan per fare il servizio militare, e quindi come si fa ad avere fedeltà verso i ruoli e le regole del nostro Paese se sei stato nell’esercito di un’altra nazione, alla quale senti comunque di appartenere?”. Il problema comunque non è la minaccia del terrorismo, la banda Hofstad o l’assassinio di van Gogh, bensì il fatto che in un momento di crisi economica “i marocchini e i turchi non vogliono lavorare, non si danno da fare, aspettano l’aiuto dello stato”. E’ l’altra faccia dell’elettorato di Wilders, la working class stanca di essere dimenticata dalle elite (un po’ com’è avvenuto con la Lega Nord in Italia), i lavoratori e gli spezzoni della piccola borghesia, dell’artigianato e del mondo operaio spaventati dalla competizione figlia della globalizzazione dei mercati. “Wilders dice quello che pensa la gente: dobbiamo limitare l’immigrazione, far accettare ai musulmani le nostre regole, punirli se necessario”, conclude Hans, "i coffee shop sono un regalo che i socialdemocratici hanno fatto agli arabi, chi credi che tragga beneficio dallo smercio di droga ad Amsterdam? Se i coffee shop chiudessero da un giorno all’altro scoppierebbe la guerra civile, come a Gaza”. Hans ormai si è infervorato e si vede che vorrebbe continuare a parlare ma il suo compagno lo tira per la giacca blu e si allontanano sotto la pioggia rada tornando alle loro occupazioni quotidiane.

Qualche considerazione conclusiva. Abbiamo sentito le voci degli olandesi per capire com’è cambiato il leone arancione negli ultimi anni, al tempo del multiculturalismo in crisi e dei sistemi di welfare ormai da ripensare anche lì dove sembravano indistruttibili. L’immigrazione è ancora il tema principale sul banco della politica, il punto debole di una società confusa che non sa se accettare o respingere, condividere oppure escludere, ripensare il proprio passato per cambiare o far sì che tutto resti così com’è, per paura di perdere le conquiste frutto di un lungo periodo di pace, prosperità e progresso. Un Paese uscito con le ossa rotte dalla Seconda Guerra mondiale, negli anni Cinquanta e Sessanta seppe affrontare con coraggio grandi cambiamenti come la fine di un impero secolare, l’indipendenza dell’Indonesia, la decolonizzazione tra America del sud e Mar di Giava; la mobilità in quello che restava del regno diede vita a un complesso fenomeno migratorio in cui popoli diversi, gli africani, gli asiatici, gli europei, e fedi diverse, quella cattolica, ebraica e poi sempre di più quella musulmana hanno generato una città-mondo meticcia come un remake di Blade Runner ma allo stesso tempo fiera della sua lingua, della sua cultura e delle proprie tradizioni. Dagli anni settanta, con l’accentuarsi di nuovi fronti migratori come quello apertosi con la Turchia e il Nordafrica, le classi politiche, gli architetti e gli urbanisti, i sociologi e i “controllori” del sistema, appoggiati dalla stampa e dalla classe accademica, elaborarono un modello, il multiculturalismo, per arrivare a una sintesi della complessa composizione sociale di Amsterdam e dare un volto organico al nuovo mondo che stava nascendo: si alzarono i grandi casermoni periferici dove oggi vivono i cittadini di colore del regno, gli immigrati musulmani e le tante altre etnie del paese (rastafari compresi); divisi piuttosto che uniti al resto della città, lontani dal centro della città (che in parte li sfama e permette di sopravvivere) e dai quartieri chic dove non girano donne velate. In fondo, il capo della polizia di Amsterdam si è rifiutato di obbedire alla legge che voleva vietare il burqa. Il multiculturalismo è duro a morire.

E se tornasse Max Havelaar?
“Secondo lei cosa avrebbe detto Max Havelaar di Geert Wilders?”. A questa domanda impossibile la responsabile della casa-museo di "Multatuli" (dove Eduard Dekker – alias Max Havelaar – trascorse i suoi ultimi anni di vita lasciando le sue ceneri in un’urna orientaleggiante e un ciuffo di capelli sulla chaise longue color porpora piazzata accanto alla finestra) resta interdetta e fa un’espressione strana. Ma facciamo un po’ di ordine: Dekker era un civil servant dell’impero coloniale olandese nel diciannovesimo secolo. Scioccato dal trattamento inflitto dai suoi connazionali alle popolazioni di Java e Sumatra scrisse un libro, Max Havelaar ovvero le aste del caffè della Società di Commercio olandese, per denunciare le violenze del colonialismo. Il protagonista del racconto – costruito con un meccanismo narrativo degno del Manoscritto di Saragozza – si chiama Max Havelaar, “Multatuli” per gli abitanti delle colonie, e si rivolge direttamente al re dell’Olanda per chiedergli di intervenire e riportare un po’ di umanità in quelle lande desolate. Il racconto ebbe un enorme successo ed è diventato uno dei libri più letti in Olanda, tradotto anche in italiano. Qualche anno fa il New York Times l’ha definito “il libro che ha ucciso il colonialismo”. La responsabile della casa di Havelaar ad Amsterdam non vuole buttarla in politica ma dalla sua pacata ed accurata ricostruzione della vita e delle avventure di Multatuli si capisce che Dekker avrebbe detto solo “bad things” di Wilders, niente di buono insomma. Dekker non è un autore qualsiasi ma a detta di molti lo scrittore più celebre della letteratura olandese, al pari di Spinoza per la filosofia, di Rembrandt e Van Gogh (Vincent) per l’arte, di Eise Eisinga per le scienze e così via. La letteratura olandese moderna si fonda quindi su un romanzo dalle identità multiple, fuse in modo sovversivo, ed ha per protagonista un personaggio, Havelaar, che perde la sua origine occidentale mescolandosi con i popoli colonizzati e dando voce alle loro rivendicazioni, una sorta di Kurtz conradiano. “Geens men is illegal”, nessun uomo è illegale, si legge sulla targa sotto il grande busto di bronzo di Multatuli che campeggia su uno dei ponti di Amsterdam, nella cerchia dei canali. Una frase che probabilmente non piacerebbe a Geert Wilders. A Jello Biafra sicuramente sì. Sarebbe stato interessante sapere cosa ne pensava Theo van Gogh di Multatuli, ma un marocchino l’ha ammazzato senza pietà e dunque non possiamo far altro che immaginare la risposta, o le risposte. Memorie diverse. Orrore e candore.