The day after di NY

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The day after di NY

09 Marzo 2008

Mettere in arte l’Undici Settembre è un’impresa da brivido. È come parlare di una persona cara venuta a mancare: bisogna elaborare il lutto, ricreare un equilibrio. Sono molti gli autori statunitensi che si sono buttati nell’impresa: in letteratura e nel cinema – si pensi ai celebri United 93 di Paul Greengrass, racconto in presa diretta dello schianto del volo 93 dopo la rivolta dei passeggeri, o al patriottico World Trade Center di Oliver Stone, celebrazione del coraggio di due poliziotti sopravvissuti sotto le macerie delle torri. Ci hanno provato in tanti, e i risultati sono controversi: basta entrare in libreria per scontrarsi tanto con l’anonimo Good Life di Ian McInerney che con il capolavoro dell’enfant prodige Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino.
 
Gettando uno sguardo alla produzione artistica sull’Undici Settembre, una cosa balza però all’occhio: ad oggi, le prove migliori riguardano il dopo-tragedia. L’elaborazione del lutto, appunto. È il caso, in letteratura, del già citato romanzo di Safran Foer che narra il vagabondaggio del piccolo Oskar Shell – orfano del padre, vittima dell’attacco terroristico – per le vie di New York. È il caso, nel cinema, del disarmante Reign Over Me di Mike Binder: protagonista è questa volta un uomo che, dopo aver perso moglie e figli sugli aerei kamikaze, si crea un mondo al limiti della follia. E sull’elaborazione del lutto è incentrato anche L’uomo che cade, il nuovo romanzo di Don De Lillo – peso massimo della letteratura americana – di fresca pubblicazione per i tipi di Einaudi.

Il romanzo di De Lillo, da aggiungere alla lista delle migliori rappresentazioni dell’Undici Settembre e di quel che è seguito, si apre pochi secondi dopo la tragedia. “Non era più una strada ma un mondo, un tempo e uno spazio di cenere in caduta e semioscurità”: sono le immagini che tutte le televisioni del mondo hanno trasmesso a ripetizione. In questa cenere, in questo caos primordiale di morte e lacrime, si muove uno dei protagonisti dell’Uomo che cade: Keith Neudecker, impiegato al World Trade Center e scampato alla tragedia. Keith cammina, sporco di sangue e fuliggine, cammina apparentemente senza meta lontano da lower Manhattan giusto in tempo per “udire il crollo della seconda torre”. Vaga nel caos e si lascia guidare dal cuore, la ragione è forse rimasta lassù. Al termine del suo tragitto si trova a suonare alla porta dell’ex moglie Lianne e del figlio Justin: la tragedia lo ha riportato a casa.

Dopo la morte, sembra dire De Lillo, bisogna ricominciare da capo. È quello che Keith e la moglie cercheranno di fare per tutto il romanzo: ripartire da zero, come se l’Undici settembre avesse segnato uno spartiacque storico e individuale per tutti i newyorchesi. Attorno a loro ruotano altre storie e altri personaggi, legati dal filo rosso delle Twin Towers e dall’attacco dei fondamentalisti islamici al cuore di Manhattan.
 
C’è Justin, figlio di Keith e Lianne, che non riesce ad accettare il crollo delle torri e trascorre i pomeriggi a casa di due fratelli. Con loro, e con il cannocchiale di papà, scruta incessantemente il cielo: è un segreto, ma i bambini sanno che quegli aerei potrebbero tornare da un momento all’altro ed è bene farsi trovare preparati. Conoscono anche il responsabile dell’orrore: è Bill Lawton, al secolo Bin Laden. Una storpiatura infantile forse voluta, per non evocare direttamente il re del terrore.
 
C’è Nina, madre di Lianne, fidanzata con un mercante d’arte misterioso e probabilmente colluso con il terrorismo europeo degli anni Sessanta. Martin, questo uno dei suoi nomi, rappresenta chi cerca di dare un senso a tutto questo orrore: non a caso è europeo, ha uno sguardo maggiormente distaccato. Ed è proprio Martin, suscitando puntualmente le ire di Nina, a calare l’Undici Settembre nel quadro degli odi che gli Stati Uniti possono aver suscitato in giro per il mondo.
 
E poi c’è Florence, donna di colore sopravvissuta ai crolli alla quale Keith riporta una valigetta raccolta – chissà perché – nella disperata fuga dalle torri. Con Florence Keith avrà una breve relazione, deviando momentaneamente dalla ricomposizione familiare. Dal loro rapporto emerge la possibilità di comunicare solo tra simili, solo tra vittime della stessa assurdità. Chi del resto, se non un miracolato come te, può comprendere cosa significhi avere sotto la pelle – insieme ai vetri – “minuscoli frammenti del corpo del kamikaze”?
 
La storia di Keith e Florence, le storie dei personaggi che gravitano intorno, sono intervallate infine da lucidi viaggi nella mente dei kamikaze. L’addestramento, il viaggio negli Stati Uniti, la paura di non passare la dogana. I dubbi sulla moralità dell’atto che stanno compiere, l’atroce lavaggio del cervello perpetrato dai fondamentalisti più convinti. E alla fine, mentre l’aereo dirottato sorvola il “corridoio dell’Hudson”, la definitiva vittoria di Allah e della dottrina religiosa più intransigente.
 
È una New York disperata, quella di De Lillo. Sola e alienata. Ben rappresentata da un singolo personaggio, l’uomo che cade, e da una piccola comunità, i malati di Alzheimer che partecipano a un corso di narrazione tenuto da Lianne. Il primo, l’uomo che cade, è una sorta di artista che si getta legato dai punti più strani della città: sempre vestito di tutto punto, se ne sta lì a penzolare imitando la postura degli uomini che dalle torri gemelle sono caduti davvero. Sono performance crudeli, fatte per ricordare – quando meno te lo aspetti – il momento in cui New York è stata violentata. Ma sono anche un modo per esorcizzare la vista di quei corpi minuscoli che hanno punteggiato il cielo di lower Manhattan, la mattina dell’11 settembre 2001.
 
La collettività dei newyorchesi emerge invece nei malati di Alzheimer, che mettono settimanalmente per iscritto le proprie impressioni su un tema scelto da Lianne. Spaesati come tutti dopo l’attacco alle torri, anche loro vogliono scrivere “degli aeroplani”. Quello che emerge da queste persone, prossime a perdere completamente la memoria, è comune a tutti gli americani: lo sgomento e l’irrazionalità. Ma anche la rabbia per non potersela prendere direttamente con qualcuno, dice Anna: “Non sai che fare. Perché quelli stanno fuori dalla tua vita, a un milione di chilometri di distanza. Senza contare che sono morti”. E infine c’è il ruolo di Dio, con una domanda banale quanto inevitabile: se Dio c’è, ed è uno solo, perché ha permesso tutto questo?
 
Domande senza risposta, ancora oggi. E forse lo saranno per molti anni, fino a quando le ferite non si saranno rimarginate. Per i sopravvissuti però, che come Keith hanno visto morire parte dei colleghi piuttosto che gli amici del poker, le difficoltà saranno sempre maggiori, per non dire insormontabili. Forse, lascia intuire il saggio De Lillo, da certe tragedie non si può proprio guarire. Mai più.