“The Road non voleva scontentare nessuno ma alla fine ha deluso tutti”
13 Giugno 2010
Ha sollevato un gran polverone, come tutti i film molto attesi. Presentato in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia, The Road dell’australiano John Hillcoat è uscito nelle sale italiane lo scorso 28 maggio, dopo quasi due anni di attesa.
Tratto (fin troppo fedelmente) dall’omonimo romanzo del grande Cormac McCarthy, premio Pulitzer 2007, The Road ci fa respirare a pieni polmoni l’atmosfera della morte post-apocalittica. In un mondo devastato dalle calamità, in cui la civiltà umana è stata distrutta, gli animali e le piante sono morti, e il sole è rimasto oscurato, un padre (Viggo Mortensen) e suo figlio (Kodi Smit-McPhee) viaggiano verso il sud cercando riparo e cibo ed evitando le fauci dei cannibali che popolano le lande desolate. Nel film prende vita la filosofia hobbesiana dell’ “homo homini lupus”, che mette in luce una forma di paura dilagante in America: la sopravvivenza. Abbiamo fatto quattro chiacchiere su questo fenomeno cinematografico e letterario con Gianluca Arnone, redattore e critico della rivista il Cinematografo.
Nella sua recensione lei ha definito The Road “un film dalle grandi premesse, più atteso che riuscito”. Ci può spiegare perché?
Anche senza l’involontario battage pubblicitario che ne ha preceduto l’uscita – è il paradosso di un mercato che rifiuta una pellicola perché la giudica di scarso appeal e finisce per renderla più accattivante proprio a motivo di questo rifiuto – The Road solleticava la curiosità di addetti ai lavori e pubblico per tutta una serie di ragioni congenite. In breve: era tratto dal libro Pulitzer di un maestro americano, Cormac McCarthy, che aveva appena fatto vincere ai Coen quattro Oscar. Il romanzo raccontava una storia perfetta per lo spirito dei tempi, intrisa delle fobie tipiche di questi anni, dalla paura dell’altro all’incubo della fine totale, ossessionata dalla colpa, percorsa da slanci religiosi e crudeltà disumane. Un racconto emblematico, che coglie appieno l’umore di un millennio apertosi con la distruzione delle Torri ma non vi rimane impigliato. McCarthy ha saputo andare oltre, regalandoci un’opera universale e metastorica. Il film sarebbe stato capace di fare altrettanto? Hollywood avrebbe concesso la necessaria libertà di manovra a Hillcoat? E la presenza di due star come Viggo Mortensen e Charlize Theron sarebbe stato un limite o un valore aggiunto? Questi erano i principali interrogativi che avevano preceduto la messa in opera del film. Ed è probabile che siano stati anche i punti di maggiore criticità che ne hanno inficiato la riuscita.
La critica ha ritenuto che la parte iniziale del film fosse un po’ troppo lenta e macchinosa. Da cosa è stata dettata, secondo lei, la scelta del regista di allungare l’incipit rispetto al libro di McCarthy?
Ricadiamo nelle criticità di cui sopra: la presenza di una star del calibro di Charlize Theron imposta da Hollywood ha spinto gli sceneggiatori a dare maggiore spazio al personaggio della moglie del protagonista, che nel libro di Mccarthy occupava poche pagine. Si è ritenuto inoltre che, ampliando la sottotrama amorosa dentro il più generale architesto narrativo, la spettacolarità del film ne avrebbe giovato. Invece gli ha solo tolto equilibrio e conferito pesantezza, spezzettando il racconto con flashback e momenti morti. Bisognava invece puntellare di più il crescendo dialogico ed emotivo tra i due attori principali della storia, il padre e il bambino. Tra i quali si sentiva nel libro l’eco di una terza presenza, Dio. Qui completamente assente.
In Italia l’uscita del film è stata posticipata di quasi due anni. Come mai? Si temeva davvero che il tono greve che lo caratterizza potesse appesantire il clima da crisi economica?
Credo si sia fatta confusione tra tono apocalittico e a-tonia. Il genere apocalittico ha sempre avuto nei passaggi d’epoca di particolare problematicità una forte valenza simbolica e un discreto successo di pubblico. In fondo tutte le saghe fantastoriche di questi anni – da Harry Potter ai cinefumetti ai disaster movies – hanno giocato sull’evocazione di un Armageddon sempre di là da venire. La particolarità di The Road è probabilmente il suo non essere riuscito a mediare tra il rigore del soggetto letterario e la natura affabulatoria del racconto cinematografico. Non si è voluto scontentare nessuno: né McCarthy, né i fan del libro, né il pubblico del cinema, né i produttori. Si è finito per scontentare tutti.
Molti hanno ritrovato in The Road di John Hillcoat molte congruenze visive con Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen. Lei è dello stesso avviso? Se sì, in quali punti?
Non sono molto d’accordo. A parte la scelta del medesimo romanziere– e quindi di un universo ideativo comune ad entrambe le trasposizioni – il film dei Coen ha un’originalità di lettura che il lavoro di Hillcoat non ha. Se i fratelli hanno saputo “adattare” il mondo atroce di McCarthy alla loro poetica grottesca intrisa di nichilismo beffardo, Hillcoat ha adattato (piegato?) il dispositivo cinematografico alla matrice narrativa/filosofica di McCarthy. Nel primo caso abbiamo un riconoscibilissimo film dei Coen. Nell’altro un romanzo di Mccarthy tradotto per immagini.
Il film può davvero essere interpretato come metafora del presente?
Credo che il film, come il libro, abbia solo voluto attraversare il presente per mirare a qualcosa di più universale. Se poi volessimo attenerci alle strategie produttive hollywoodiane, è certo che la scelta di trasporre The Road, in un determinato momento storico, non può dirsi ingenua. Ma i ritardi nell’uscita hanno sortito un effetto imprevisto: l’America aveva già voltato le spalle all’abisso post-11 settembre eleggendo Obama, il Presidente del cambiamento.
Il troppo rigore, la troppa fedeltà della trasposizione cinematografica del libro di McCarthy ha finito per nuocere al film, come alcuni dicono?
Indubbiamente sì. Sono due dispositivi con regole di funzionamento diverse. E ogni qual volta prevale da parte di sceneggiatori e registi il timore reverenziale nei confronti dell’originale letterario, si fa un torto a tutto il cinema. Ma potrei anche dire che andrebbe rivisto il concetto di fedeltà: se parliamo di fedeltà nell’impianto diegetico abbiamo già detto come Hillcoat abbia optato per un plot più addomesticato e corposo (lo spazio conferito alla figura della moglie, il rimorso del marito). Se parliamo di fedeltà all’essenza del romanzo invece, la corrispondenza diegetica c’entra poco. Andrebbe ricercata un’altra armonia tra parole e immagini, una eco più profonda. Cosa che ad Hillcoat non è riuscita, essendosi fermato alla natura meramente superficiale della trasposizione, ovvero l’illustrazione dei fatti.
Il “quasi cannibalismo” che caratterizza il film lo definirebbe più una scommessa o un’autocensura?
Un’autocensura mascherata da virtù. Non era un problema di pornografia del visibile secondo me, ma di scaltro calcolo sui divieti.
Si può andare al di là dell’interpretazione cristiana che è stata fatta del finale del film?
Io non so se il finale del film possa dirsi cristiano. O religioso tout court. La morale familiare con cui sembra chiudersi, in un barlume di speranza, The Road, ha più a che fare con la tipica retorica americana dei tempi bui. Che certamente possiede una fisionomia culturale e religioso precisa. Però, come ho già detto, faccio a fatica a trovare nel film una forte invocazione di Dio. Il libro aveva senza dubbio una valenza più smaccatamente escatologica.
Gianluca Arnone, redattore e critico della Rivista del Cinematografo, ha scritto il saggio “Diario di una passione – il curato di Bresson” nel catalogo “Preti al cinema: i sacerdoti e l’immaginario cinematografico” (Fondazione ente dello Spettacolo 2010), e “Lo scafandro e la farfalla: cinema oltre il visibile” nella raccolta di saggi dedicati “Paul Ricouer, il cinema e la morte” (FEdS, 2010).