” They talk antisionism, they think antijews “
16 Maggio 2008
Camicia a quadri e pantaloni corti. Lo storico Benny Morris si presenta così da buon accademico dal retroterra anglosassone. Noto al grande pubblico per aver dato alle stampe ‘Righteous victims‘ (‘Vittime‘ nell’edizione italiana) e per aver per primo aperto, nel 1988, il vaso di Pandora della questione dei rifugiati palestinesi che abbandonarono Israele nel 1948. Morris è alla Fiera del Libro di Torino per promuovere la sua ultima fatica letteraria ‘Due popoli, una terra‘.
Prof. Morris, da storico, giornalista e autorevole conoscitore della storia dei processi politici di Israele sin dalla sua fondazione, si sente di condividere l’affermazione dell’ambasciatore israeliano in Italia, Gideon Meir, il quale ha definito la storia di Israele ”una storia di successi”?
Israele è allo stesso tempo un’incredibile storia di successo e una storia di fallimenti politici. Il successo è ovvio. Economicamente ha dimostrato di essere molto produttiva se si tiene conto delle sue risorse naturali le quali si approssimano a zero. Sotto il profilo politico è altrettanto evidente il successo. Israele è l’opera di riunione delle comunità ebraiche provenienti da ogni parte del mondo, principalmente da paesi ove la democrazia era quasi del tutto assente, verso una terra che è stata assediata, durante gli ultimi sessant’anni, da continue guerre. Ecco, nonostante le condizioni ambientali, Israele è divenuta una democrazia che peraltro ha mantenuto un buon livello di vivacità democratica. E ciò a dispetto del fatto che il 20 per cento della popolazione israeliana di origine araba non fosse minimamente intenzionato a vivere sotto il potere del governo israeliano e che tutti i paesi vicini volessero distruggere il neonato Stato. E’ certamente un successo quello di essere riuscito a mantenere un alto livello di democraticità pur avendo conosciuto vittorie militari sui propri nemici. Queste vittorie mettono ancor più in evidenza il livello di democraticità di Israele se si considera che gli Stati Uniti, vittoriosi durante la seconda guerra mondiale, hanno di fatto ‘chiuso a chiave’ gli sconfitti giapponesi sotto un governo militare. Scientificamente e culturalmente i successi di questi sessanta anni sono fuori dubbio. E’ evidente che i fallimenti rimangono se si tiene conto del fatto che Israele non è riuscita a raggiungere la pace con i vicini arabi e, a dirla tutta, neanche con la popolazione araba che vive al suo interno.
A chi attribuirebbe le responsabilità di questo fallimento?
Non sono così incline a riconoscere tutti i torti di questo mondo a Israele, anche se forse lungo la via i governi israeliani avrebbero potuto agire diversamente. Il primo punto su cui mi soffermerei è che sin dai primi movimenti migratori degli ebrei in Palestina e successivamente con la costituzione di Israele nel 1948, la presenza di cospicue comunità ebraiche in Palestina è sempre stata osteggiata dagli arabi palestinesi e dalle popolazioni arabe della regione. Questi non volevano, non vogliono e probabilmente non vorranno riconoscere l’esistenza del sionismo quale fenomeno politico né tanto meno hanno voluto, vogliono o vorranno riconoscere l’esistenza e la legittimità di una presenza sovrana ebraica in Palestina. Questa è la principale causa di fallimento. Certo è fuori di dubbio che in determinati momenti Israele avrebbe potuto essere più ‘conciliatoria’, avrebbe potuto permettere il rientro, appena dopo il 1948, di parte dei rifugiati palestinesi. E ancora avrebbe potuto fare maggiori concessioni per raggiungere la pace. Dal 1967 il governo israeliano avrebbe potuto desistere dal colonizzare l’intera Cisgiordania. Ma ripeto tutto questo è marginale se comparato con l’atteggiamento di rifiuto totale della controparte araba. Ciononostante, Israele ha raggiunto due paci con due paesi limitrofi quali sono l’Egitto e la Giordania. Con l’Egitto si tratta in verità di una pace fredda, formale. Infatti, è arcinoto che le corporazioni esistenti in Egitto (medici, professori, avvocati, giornalisti) sono terribilmente ostili ad Israele. Dunque è buona cosa che i governi abbiano firmato un trattato ma di fatto ciò non risolve il problema: gli egiziani, intendo la popolazione, non hanno fatto la pace con Israele e la sua gente.
Il regime di Mubarak è oltretutto traballante. Cosa ne sarebbe di quella pace, per quanto fredda, qualora la Fratellanza Musulmana dovesse prendere il potere in Egitto?
Ritorneremo tout court all’ostilità tra i due paesi. L’Egitto tornerebbe a sostenere esplicitamente Hamas a Gaza di cui diventerebbe un avamposto. Insomma Dio ci scampi da un’eventualità del genere.
Lei ha pubblicamente affermato che uno dei problemi oggi esistenti nel sistema politico israeliano in relazione ai fallimenti nel processo di pace, è la mancanza di una buona classe dirigente. E’ di oggi la notizia che il premier israeliano Olmert è indagato per finanziamenti illeciti che un ebreo-americano avrebbe versato alla sua formazione politica. Anche volendo seguire il suo ragionamento, qual è la causa di questo impoverimento del quadro politico israeliano?
E’ una questione complessa. Potrebbe trattarsi forse di un accidente della Storia. In questa particolare congiuntura politica Israele non è dotata di una buona leadership. I fenomeni di corruzione sono intimamente legati ai processi storici. Quando Israele era un paese povero, ‘idealistico’ in certo senso, i quadri dirigenti del nuovo Stato non pensavano affatto ai loro personali bisogni, non accumulavano. Si pensi a Ben Gurion o a Moshe Sharett. Erano del tutto poveri. Un appartamento e punto. Dal canto suo Olmert possiede appartamenti, proprietà immobiliari e chissà cos’altro. Ciò mostra la trasformazione della mentalità israeliana. Da una mentalità collettivista ad una individualista, da una struttura economica prevalentemente socialista ad una di fatto capitalista. Esistono persone di buona taratura ma non risultano attraenti all’elettorato. La politica israeliana risulta ormai svuotata della sua portata idealistica.
E’ vano pensare che un miglioramento del quadro politico, dal suo punto di vista, possa avere una sia pur minimo impatto sulla classe dirigente palestinese?
Per quanto si possa ritenere, gli israeliani hanno ben poche possibilità di influenzare il miglioramento dei quadri palestinesi.
Lo storico Morris ha assunto posizioni di rottura sul piano storiografico. Con le sue ricerche è venuto alla luce quello che da molti è stato ritenuto la nascita del filone definito ‘post-sionista’. Ma sul piano politico lei ha assunto due diverse posizioni durante la prima intifada del 1987 e la seconda intifada del 2000. Nel 1987 rifiutandosi di servire per l’IDF scontò giorni di duro carcere mentre con la seconda ondata di violenze nei territori lei ha voluto assumere posizioni più critiche della leadership dell’Anp. Perché?
La prima intifada è profondamente differente dalla seconda. Per due ragioni: i palestinesi sentivano di doversi sbarazzare di un governo militare che li opprimeva e che non voleva. Io ero profondamente in sintonia con questa voglia di liberazione. La seconda intifada ha tutt’altra portata. I palestinesi hanno affrontato la ripresa delle ostilità del 2000 non più con pietre ma con veri e propri arsenali bellici e, soprattutto, l’uso indiscriminato di attacchi terroristici. Tutt’altra faccenda insomma. Con la seconda intifada le milizie palestinesi puntavano a qualcosa di diverso che alla semplice liberazione dall’occupazione del 1967 e lo facevano attraverso due differenti fasi: liberazione della Cisgiordania e della striscia di Gaza e attacco ad Israele con l’evidente intenzione di distruggerlo.
Qui alla Fiera di Torino si è consumato un tentativo di boicottaggio ai danni di Israele proprio in occasione delle celebrazione del sessantesimo anniversario dalla sua fondazione. Bandiere israeliane e statunitensi date alle fiamme, minacce di sfondamento dei corridoi di sicurezza, violenze verbali contro Israele. E’ ancora plausibile spiegare questi fenomeni attraverso la reiterata distinzione tra antisemitismo e antisionismo?
Non posso che ritenere che questa vecchia distinzione molto in voga in Europa nasconda in verità un vecchio antisemitismo di difficile estirpazione. Insomma "they talk antisionism, they think antijews".