Tokyo non si fida di Pechino ma non può rinunciare ai suoi soldi

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Tokyo non si fida di Pechino ma non può rinunciare ai suoi soldi

28 Febbraio 2008

Le grandi manovre del fondo sovrano cinese
e l’attivismo economico di Pechino non rallegrano i giapponesi, che chiedono
chiarimenti. Nel frattempo in Europa sembra profilarsi una strategia
alternativa.

I
movimenti del fondo sovrano cinese, China Investment Corporation (“CIC”) sono gli osservati speciali delle
task force economico-finanziarie di mezzo mondo.

Finora le maggiori discussioni intorno a CIC erano concentrate negli USA e in
Europa, ma anche in Giappone il dibattito sta subendo un’improvvisa
accelerazione. Conta poco che l’attuale ministro giapponese sia il figlio di
quel Fukuda che negli anni ’70 avviò una politica di distensione con tutti i
Paesi del sud-est asiatico e con i tradizionali nemici cinesi.

La
scorsa settimana i giornali giapponesi – le edizioni in inglese del Tokio Times
e del Nikkei – invocavano iniziative da parte del G-7 in riunione a Tokyo. Il
timore principale non è tanto che CIC provi ad insinuarsi in una keiretsu (gli agglomerati
banchindustriali nipponici): i cinesi sono già entrati e il board di CIC ha già
detto di voler destinare più della metà dei fondi per investimenti in Asia al
Giappone.

Il
punto è un altro. Il Giappone, accanto alla Cina, figura tra i principali
finanziatori del debito statunitense (mediante sottoscrizioni dei T-Bond emessi
dal Tesoro USA). Ma, secondo quanto rivelano i primi dati sulle riserve cinesi,
la Cina ha fatto
un brusco cambio di strategia. Dalla seconda metà del 2007, ha virato dai titoli
di debito agli investimenti azionari, e ha trasferito 200 milioni di Euro a
CIC, costituita guardacaso in coincidenza con il cambio di investimento.

Nelle previsioni
dei giapponesi, la mossa cinese può avere due effetti.

Il
primo è quello di tagliare drasticamente la domanda di debito americano, con il
risultato di costringere gli americani a fare nuove emissioni di T-Bond con
interessi molto più alti, aumentando così il servizio del debito.

Il
secondo effetto è che se il management di CIC, divenuto a tutti gli effetti un
investitore di rischio, si rendesse conto che il rendimento atteso –
l’inflazione cinese si aggira sul 5% – è troppo basso, il portafoglio di
investimenti sarebbe modificato di colpo (oltre a costare la testa, nemmeno
troppo per modo di dire, ai manager cinesi). Come conseguenza, lo “switch” di
un investitore così pesante finirebbe per scatenare dei veri e propri terremoti
borsistici.

Ma
Pechino non è solo l’osservato speciale per i terremoti sui titoli di borsa che
potrebbe causare tramite CIC. Come rileva un interessante studio di Deutsche
Bank a firma di Steffen Dyck ( “China’s commodity hunger: From oil
and copper to milk and grain”
),  le acquisizioni
dei cinesi potrebbero interessare materie prime e commodities.  I cui prezzi, come denunciano già da tempo i
dati della Banca Mondiale e dell’OECD, sono in rapido aumento per la domanda
crescente da parte di Pechino.

Per
giunta, per vincere le resistenze politiche dei governi occidentali, i cinesi,
che già investono direttamente in Africa e in Sudamerica, stanno iniziando ad
acquisire operatori occidentali in tandem con altri occidentali. E’ lo schema
della joint venture tra CIC e J.C.
Flowers, ma anche del consorzio tra Chinalco e l’americana ALCOA.

Gli
occidentali per ora sembrano accettare questa strategia, i giapponesi no: il
ministro delle Finanze ha chiesto di incontrare personalmente i vertici di CIC
per chiedere chiarimenti sulle politiche di investimento.

Nel
frattempo, l’unica strategia proponibile per gli Europei dopo l’invasione degli
USA sembra il vecchio “divide et impera”: dividere il fronte dei potentissimi
investitori “sovrani”.

Come?
Trattando con quegli Stati che, pur autoritari, sono stati individuati come
alleati dell’Occidente. E isolando chi – la Cina – è al tempo stesso autoritario e nemico
dell’Occidente, abbracciando chi ancora è tra coloro che sono sospesi – la Russia.