Toni Negri è rimasto l’ultrà di sempre
14 Novembre 2007
di redazione
Toni Negri scrive a Libération da una camera d’albergo: facendo zapping ho visto che il calcio non è più quello di una volta, quando un tempo il centravanti ballava il tango. Ne deduco che oggi imperano Max Weber e Materazzi. Ma chissà che la rivoluzione non si mischi con il rugby. Lo stesso Zidane è stato un magnifico puma argentino, schierato contro l’estremismo di centro. Chiaro, no? Sì, “Ho acceso la televisione per riprendermi dal Jet-Lag”. Ah, beh, allora. Fine delle trasmissioni.
Vero, “les rêves de philosophes c’est toujours plus complexe qu’on ne le croit”. O come si risponderebbe Gigi Marzullo, “I sogni aiutano a vivere meglio”. Per contro l’ideologia falsifica la realtà, confonde i ricordi, si applica all’interpretazione di una partita come fosse “un video gioco”.
In questo senso Toni Negri è game over: il suo articolo parte da presupposti sbagliati e arriva fuori tempo massimo, non porta consiglio e non porta da nessuna parte. Gli basta sbirciare un frammento di fútbol da dietro gli occhiali del pregiudizio di sempre, formato alla scuola dell’autonomia.
E osserva che anche sul rettangolo verde, la razionalizzazione tecnica batte “la fantasia, l’immaginazione, l’astuzia”. Addirittura. In quello come in tutti gli altri campi del mondo globalizzato, il forte prevarica sul debole. Guarda un po’. Ormai vanno per la maggiore gli stopper criptofascisti, non più i Maradona o gli oriundi degli anni ’20. Resistere! Resistere! Resistere! Le masse si ispirino allora ai gauchos della palla ovale: la meta della liberazione è vicina. Alla prossima.
Davvero tout se tient, in questa suggestione che non regge alla prova dei fatti. La tesi è da rigettare nella sua interezza. Perché l’ultima lezione sul nuovo ordine postcapitalista – applicata all’economia dello sport – suona tanto vecchia e decrepita: prende posizione per partito preso, e non la molla fino a giustificare le conclusioni che si era prefissata. Peggio ancora, si lascia prendere da un passatismo senza futuro, nostalgico retrò. Entrando nel merito degli argomenti se ne esce con più di una gaffe, a partire da quell’elogio dell’ibridazione della razza calcistica ai tempi del ventennio. Per finire con la mitizzazione della purezza extracommerciale della nazionale argentina di rugby, in effetti mai come nell’anno della Coppa del mondo strasponsorizzata e incentivata al profitto. Com’è logico che sia.
Ma Toni Negri è rimasto l’ultrà di sempre, è l’affabulatore che racconta di aver fondato le Brigate Rossonere perché “schiavo della passione”, è il teorico del catenaccio come lotta di classe, è quello che si diverte “a fare la rivoluzione”, così come si diverte “ad andare a vedere le partite”.
Già, non è mai riuscito a capire “le persone che separano questi due universi” (intervista a Libération del 6/6/2006). Sono forse loro gli extraterrestri? Si sventoli la bandiera dell’ideologia anche allo stadio e davanti alla tv, s’il vous plaît. Serve ancora per darsi qualche aria da intellettuale, perlomeno.