Torna Rambo, contro il regime birmano e l’intellighenzia cool
01 Dicembre 2007
Se c’è un’icona del pop che sta sulle palle all’intellighenzia cool, quello è John Rambo. Il giudizio è unanime: Rambo è l’eponimo dell’aggressività militare tutta muscoli e senza cervello, l’antesignano della Delta Force e di Missing in Action, una creatura preverbale, adrenalinica, lo stereotipo della violenza mascherata da eroismo. Lo hanno definito un idiot-movie revisionista e dark, con dialoghi da soldataglia pulp, “una macchina per uccidere scarsamente letteraria”, premio peggior film, peggior attor protagonista e peggiore sceneggiatura al Golden Raspberry Awards del 1985. Rambo è un Rocky che ha imbracciato l’M60, una glorificazione dell’industria degli armamenti che ha colpito i nervi scoperti dell’America. E’ allo stesso tempo comico e disgustoso (The Nation), un sogno infantile di gloria (Time), una storia risibile (Variety).
I sovietici la chiamarono warnography, gli indiani ritirarono il film dalle sale, l’ex vice presidente democratico Walter Mondale disse gli studenti della Brown University che “Rambo potrà essere fortissimo, ma è anche stupido”. Secondo il premio Pulitzer David Halberstam era un’oscenità, un perfetto esempio di come occultare la storia appellandosi al peggior tipo di emozioni belluine. Nell’agosto del 1987, siamo nel Berkshire, Michael Ryan uccide sedici persone e ne ferisce altre quindici prima di spararsi un colpo alla testa. Viene ricordato come “il massacro di Hungerford”. Testimoni affermano di aver visto Ryan vestito da Rambo. I tabloid inglesi riportano che il cecchino durante la sparatoria aveva mimato alcune pose del berretto verde. In seguito si scoprirà che Ryan non aveva mai visto il film di Stallone.
David Morrell è il professore canadese autore di The First Blood (1972), il romanzo da cui è stato tratto il primo episodio della saga di Rambo. “Dopo l’uscita del film,” dice, “le librerie indipendenti di tendenza liberal smisero di ordinare il mio libro, credendo che fossi favorevole alla politica americana in Nicaragua e altre cose del genere”, aggiungendo che lo spirito del romanzo era stato tradito dall’industria del cinema hollywoodiano.
Rambo nasce il 6 giugno del ’46 in Arizona. Suo padre viene dall’Europa, la madre è una nativa Americana. Nel ’64, dopo il liceo, si arruola nell’esercito e inizia il suo training a Fort Bragg, entrando nelle forze speciali. Negli anni Settanta combatte in Vietnam, dove viene imprigionato e riesce più volte a fuggire. Quando torna a casa l’aspetta un altro inferno: lo scambiano per un freak, uno scoppiato, un vagabondo, solo che lui non è diventato pazzo, non si è neppure trasformato in un killer, è solo un reduce a cui nessuno ha ordinato di spegnere l’interruttore. Ancora oggi, il detraining psicologico dei veterani dell’Iraq è in cima all’agenda del presidente Bush, una priorità intorno a cui lavorano gli specialisti della medicina psichiatrica militare.
Nel libro di Morrell, dunque, Rambo interpreta la parte del ‘cattivo’, mentre lo sceriffo della polizia di contea, Teasle, è il personaggio buono, anche lui reduce di una guerra (la Corea), ma impegnato a garantire l’ordine piuttosto che a scatenare l’anarchia. Alla fine del romanzo, Rambo viene giustiziato e non sono previsti sequel in Vietnam e Afghanistan. Morrell ci tiene a precisare che le sue origini hanno influenzato il ‘messaggio’ del racconto: vivere in una nazione pacifica come il Canada vuol dire impegnarsi nella riabilitazione dei veterani. Insomma, il solito predicozzo dei canadesi che si sentono una spanna sui loro cugini degli Stati Uniti.
Negli Ottanta quella di Rambo fu tutta un’altra storia. Il personaggio sfugge dalle mani del suo creatore e diventa un protagonista della cultura e della politica americana. Il secondo episodio della saga, diretto da George Cosmatos (il regista di Cassandra Crossing), è dedicato a un argomento che aveva infiammato il dibattito politico degli Usa negli anni Settanta – salvare i reduci ancora prigionieri dei Vietcong. In realtà, il film parla della politica estera statunitense del decennio successivo, tra Panama e lo scandalo Iran-Contra. Secondo Morrell, il Rambo sugli schermi sarebbe l’alter ego del colonnello Oliver North, il militare trascinato di fronte al Congresso con l’accusa di aver finanziato la guerriglia nicaraguense con i proventi delle armi vendute all’Iran.
Rambo diventa una di queste figure controversa della storia americana contemporanea, un mostro per alcuni, un “combattente della libertà” secondo altri, in ogni caso la incarnazione del paradosso americano, essere il paese più ammirato e più insultato del mondo. Come scrivono John Micklethwait e Adrian Wooldrige, “fuori dai suoi confini la parola America è diventata una specie di sinonimo sia di avanguardia tecnologica, meritocrazia e grandi opportunità, sia di imperialismo, ineguaglianza e giustizia primitiva”. Rambo è l’eroe giusto per questa nazione piena di contraddizioni.
Il presidente Reagan andava matto per Rambo. Lo avrebbe mandato volentieri in Libia a sderenare il Colonnello Gheddafi, ma gli serviva tenerlo vivo in Afghanistan per contenere i rossi nel sud-est asiatico. Parlando di riforma delle tasse, il presidente disse testualmente: “Lasciatemelo dire, nello spirito di Rambo, ci stiamo muovendo per vincere questa battaglia”. Da allora lo stato federale si guarda bene dal rovistare troppo a fondo nelle tasche dei contribuenti.
Le menti migliori di una generazione sono rimbambite precocemente nelle querelle rambesche tra ‘forma’ e ‘contenuto’, ‘fantasia’ e ‘realtà’, in una infinita destrutturazione di maroni sui miti della cultura di massa. Gli intellos hanno spaccato in quattro (e quattrotto) il capello lungo del veterano più blasonato d’America, riducendo il “rambismo” a una interpretazione eminentemente culturalista: dal marketing politico all’infotainment war, dalla teoria dei videogame agli adesivi appiccicati sul cofano (“Questa macchina è protetta da Rambo”), è stata una critica indefessa della società del merchandise. Ma non basta cavarsela così, non è solo populismo.
C’è un’altra verità, semplice semplice. Irving Kristol una volta ha detto che il popolo può amare la guerra. Secondo il padre del neoconservatorismo, film come Rambo servono a una nazione “per abbandonare i piaceri animali offerti dalla società liberale” e imparare a difendersi, se è necessario. Un ideale ascetico che ritroviamo sia nella caratterizzazione che nelle ambientazioni della saga. Quando non è in missione, Rambo di solito è impegnato in lavori artigianali dentro qualche monastero zen. Un celibato lungo trentacinque anni, visto che “il sesso non era più così urgente dopo gli orrori a cui aveva assistito”, come scrive Morrell. “L’intellighenzia dovrebbe capire che gli Stati Uniti stanno funzionando grazie a una energia emotiva più che intellettuale”, ha detto Stallone in un’intervista che andrebbe riletta.
Nel ’95, una copertina del Weekly Standard ritrae il conservatore Newt Gingrich nei panni di un Rambo incazzatissimo. Time aveva appena eletto Gingrich uomo dell’anno, per i suoi meriti durante la “rivoluzione repubblicana”. Rambo è stato il campione della destra americana che tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta torna ad essere vincente, progressiva e competitiva. I valori del personaggio coincidono con quelli della maggioranza silenziosa dell’America profonda: la diffidenza verso il potere autoritario dello Stato (“amo il mio Paese ma odio il mio governo”), l’amore per la libertà e in particolare per la libertà personale, il patriottismo.
Rambo protegge l’individualismo occidentale dalle sottomissioni orientali, e in fondo è questo che fa imbestialire di più i teorici sclerotici della postmodernità, ammettere che esista ancora un soggetto tanto centrato da spaccare la faccia a qualche ducetto birmano. “Rambo vs. the Junta”, titola il Weekly Standard di qualche settimana fa, annunciando il quarto episodio della saga che uscirà nelle sale americane il 28 gennaio 2008.