Toscana, quando l’antifascismo diventa un bavaglio

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Toscana, quando l’antifascismo diventa un bavaglio

13 Novembre 2017

Voi credevate che l’eccellenza toscana fosse quella alimentare, ad esempio l’olio d’oliva o la ribollita, o magari il lampredotto? E quella artistica e storica fosse racchiusa nelle sue splendide città e nei suoi borghi suggestivi? Tutta roba scontata. Voi credevate che i problemi della Toscana fossero la recessione, il lavoro dei giovani, la fiscalità che opprime l’artigianato? Tutta roba banale. Voi credevate che i problemi della Toscana costiera fossero i trasporti e la sudditanza a Firenze della sua classe dirigente? Tutti discorsi faziosi. La Toscana rossa e pensosa vola in alto, fa la prima della classe e si dà una nuova mission: fermare l’ondata antifascista che dilaga nelle sale comunali e negli spazi pubblici. E come?

Sul Giornale dell’11 novembre se ne è occupata Eleonora Mancini, riferendo di una delibera approvata nel comune di San Giuliano Terme (in provincia di Pisa) che introduce l’obbligo di certificazione preliminare alla concessione di spazi pubblici, con tanto di autodichiarazione di adesione ai valori della Resistenza e dell’antifascismo. La giornalista evidenzia il carattere censorio e probabilmente anticostituzionale di questa curiosa procedura adottata dal comune pisano, noto faro antifascista, e nello stesso tempo apre una finestra inquietante su un percorso più ampio, che dovrebbe coinvolgere molti altri comuni toscani, a cominciare, pare, da Pisa, Prato e Siena: il gruppo consiliare Pd in Regione ha presentato una mozione, prima firmataria Alessandra Nardini, giovane esponente della sinistra dem dell’area pisana (per capirci l’area che forse dovrebbe indurre il suo partito a preoccuparsi di più del tentato scippo dell’aeroporto da parte del giglio magico renziano), con lo scopo di impegnare la presidenza a “vietare l’utilizzo di sale e spazi all’interno delle sedi del Consiglio regionale per le associazioni o manifestazioni che si richiamano al fascismo o che abbiano orientamenti razzisti, xenofobi, antisemiti, omofobi e, in generale, discriminatori. Questo l’obiettivo della mozione con cui si impegna l’ufficio di presidenza ad intervenire sul regolamento del Consiglio Regionale e si invita la Giunta Regionale ad approvare un analogo provvedimento e sensibilizzare i Comuni che ancora non l’hanno fatto ad adottare iniziative in tal senso”.

Il proposito censorio dunque si allarga, e  – giacché ci siamo, pensano gli scaltri imbavagliatori –  facciamo un bel pacchetto e ci mettiamo dentro anche gli xenofobi, i razzisti e, ovviamente, gli immancabili omofobi. A parte il fatto che nell’elenco delle perversioni alla Nardini e compagni sono sfuggite di sicuro la transfobia in sequenza con almeno un’altra decina di fobie di nebulosa identificazione penale e incerta collocazione intellettuale, c’è invece una dimenticanza che si deve registrare con preoccupazione e che meriterebbe ben altro clamore e indignazione nell’opinione pubblica rispetto al quasi totale silenzio che avvolge queste iniziative estemporanee: chi decide? Ossia, sarebbero gli stessi comuni rossi,  magari personificati dai loro assessori-militanti, ad escludere associazioni, convegni e presentazioni di libri che non siano riconducibili alla vetusta vulgata antifascista, quella obbligatoria prima del dibattito – ormai acquisito nella storiografia –  innestato dai di De Felice, Gentile, Nello, Perfetti, Parlato? Sarà possibile parlare del fascismo nei termini in cui loro lo hanno studiato, o magari nei termini di un Veneziani e perché no di Pennacchi? Non rischia anche l’interpretazione della Resistenza come guerra civile, propria di uno storico di sicurissima appartenenza alla sinistra come Claudio Pavone? E Giampaolo Pansa col suo Sangue dei vinti sarà bandito dai comuni democratici? E ancora, di più, la galassia indistinta e maldefinita dell’omofobia comprenderà anche chi sostiene che gli umani nascono dalla differenza sessuale maschio/femmina o combatte l’utero in affitto, come asseriscono le più agguerrite associazioni LGBT a cui fanno da megafono tanti assessori Pd?

Non sono domande da poco perché, al netto della solerzia da primi della classe della (in verità sempre meno) rossa Toscana, emerge un preoccupante disegno censorio che consegnerebbe la libertà di espressione e di cultura all’arbitrio dei detentori della macchina amministrativa dei comuni. E’ una preoccupazione esagerata? La smentiscano, ritirando queste orwelliane delibere di esame democratico preventivo, e si comportino da liberali, dimenticando minculpop e dirigismo culturale, e lasciando semplicemente all’eventuale denuncia penale le eventuali violazioni della legge.