Tra Fini e Berlusconi è rottura totale. E nel Pdl si apre la resa dei conti

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Tra Fini e Berlusconi è rottura totale. E nel Pdl si apre la resa dei conti

22 Aprile 2010

Gianfranco Fini vota contro Silvio Berlusconi.  Lo fa attraverso gli undici fedelissimi che bocciano il documento finale del Pdl approvato a larghissima maggioranza dalla direzione nazionale (171 membri) che dice no alle correnti e si riconosce pienamente nelle posizioni del premier sostenendone la linea politica. E’ l’immagine conclusiva di una giornata carica di tensione tra il presidente della Camera e il capo del governo, protagonisti di un litigio al calor bianco, andato in onda nelle dirette tv e web ed esploso sul palco dell’Auditorium della Conciliazione. Senza riserve, da entrambe le parti.

Uno scontro frontale che la dice lunga sulla distanza che ormai li divide e apre interrogativi sulle reali possibilità di una ricomposizione. La conferma arriva quando, a lavori conclusi, il premier parlando con i suoi dice che Fini vuole restare per logorarlo ma lui non ha alcuna intenzione di lasciarglielo fare.  E lo strumento per impedirlo è il documento della direzione che ruota attorno a un concetto chiaro: nel partito si discute e ci si confronta, poi si decide a maggioranza e le decisioni prese devono essere rispettate dalla minoranza, anche se non si condividono. Che tradotto vuol dire: chi non si adegua alla regola democratica, di fatto si mette fuori dal partito.  E che non esiste in un partito democratico una minoranza e una maggioranza a prescindere perché maggioranze e minoranze eventuali si creano tema per tema.  

Ma il presidente della Camera non arretra di un passo. Certo, sa bene che dalla sua non ha i numeri e che la componente interna che ieri ha ufficializzato è una componente di minoranza estrema, ciononostante si promuove a coscienza critica del Pdl, a “spina nel fianco” di Berlusconi o come lui stesso dice nel suo intervento a “stimolo per il partito e il governo”. Di lasciare la presidenza della Camera come gli ha chiesto il premier nel momento clou dello scontro verbale, non ci pensa per nulla e rivendica il diritto di porre questioni politiche nell partito che ha contribuito a fondare. 

E quali sono le questioni politiche? Il presidente della Camera le indica nei temi dell’immigrazione, della giustizia (con la prescrizione breve definita un’amnistia mascherata) , del rispetto dei diritti e della dignità della persona, sul Pdl a trazione leghista al Nord, su un partito di cui lamenta la scarsa elaborazione politico-culturale e la modesta incisività rispetto alle scelte del governo.  Ma non va oltre. In sostanza, il suo disegno appare nebuloso e comunque non tocca quella che in molti nel Pdl considerano la questione più importante: come mai in un primo tempo ha pensato a gruppi parlamentari autonomi (come gli ha rinfacciato Berlusconi dal palco) e poi vi ha rinunciato.

Che le scintille non siano finite qui  è poco ma sicuro. E del resto, come riferisce Sandro Bondi partecipando a Otto e Mezzo, lo stesso presidente della Camera uscendo dall’Auditorium della Conciliazione lo avrebbe detto chiaramente. Rivolgendosi proprio al coordinatore nazionale del Pdl che nel suo intervento ha stigmatizzato duramente la posizione del presidente della Camera dicendogli in sostanza che non si può stare nel partito e ripudiare Berlusconi, Fini gli ha annunciato a muso duro “vedrete scintille in Parlamento”. Una evidente minaccia che contraddice tutte le assicurazioni di rispetto del patto elettorale e di lealtà alla maggioranza ribadite sul palco ed espresse anche quando si prefigurava una scissione con la nascita di gruppi autonomi. 

Insomma, la sensazione netta è che l’ex leader di An si prepara a una tattica da vietcong per insidiare con una guerriglia quotidiana i provvedimenti di governo e maggioranza. Più che porre questioni politiche con spirito costruttivo, come ha ripetuto nel suo intervento, l’idea è quella dell’avvelenamento dei pozzi, del ricatto della forza marginale, del tentativo di piegare con pochi voti la maggioranza, della continua destabilizzazione nei prossimi quindici mesi, al termine dei quali scadrà la legge sul legittimo impedimento e quindi, in caso di mancata costituzionalizzazione del lodo Alfano, potrà riprendere l’aggressione giudiziaria nei confronti di Berlusconi che ieri Fini ha del tutto dimenticato evocando, anzi, un richiamo alla legalità dal sapore dipietrista, come osservano alcuni esponenti del Pdl.  Infine l’accusa di non saper governare i processi del partito citando il caso Sicilia e la responsabilità di Gianfranco Miccichè, cioè di un fedelissimo del Cav. 

A tutte queste accuse il premier ribatte colpo su colpo rilanciandole direttamente sul presidente della Camera e suoi suoi fedelissimi che da mesi sono impegnati in quella che considera una sistematica denigrazione del governo e del partito. A Fini ripete che se vuole fare politica non ha che una scelta: lasciare la presidenza della Camera e spendersi nel partito. Passaggio che in molti leggono come ineludibile condizione di lealtà rispetto agli elettori. Passaggio che torna nel ragionamento di Gaetano Quagliariello quando a proposito della leadership di Berlusconi dice che ”nella democrazia degli elettori, il riferimento principale rimane nell’investitura data dalla sovranità popolare”. 

Non solo: il vicepresidente dei senatori Pdl rimarca che “il Pdl può e deve discutere su tutto e deve diventare ancora più democratico, ma non può diventare la rivincita dei partiti sulla democrazia", oltre a domandarsi dove fossero finora “coloro che chiedevano più democrazia quando gli uffici di presidenza si riunivano? O quando nel Lazio è stata scelta una candidatura diversa da quella voluta dal leader del partito?”. Lo scontro diretto, con l’imprevista e immediata replica del premier a Fini, a qualcuno è apparso uno psicodramma definitivo che ha sancito la rottura.

In realtà, la sensazione di molti nel Pdl è che cominciano adesso le manovre per cercare di imbrigliare il Cav. in una tela di ragno fatta di allusioni, sospetti, dicerie sulla lealtà di chi gli sta intorno. Ha cominciato Italo Bocchino a dire che due esponenti di Forza Italia stanno per raggiungere la sponda finiana e se l’identità di uno sembra ormai rivelata – il presidente della commissione Antimafia, il senatore Pisanu da tempo avvicinatosi a Fini sulle questioni dell’immigrazione e che ieri è stato l’unico astenuto sul documento finale del Pdl – dell’altro non si sa nulla, nemmeno se esiste. D’altra parte era stato lo stesso Fini nel suo discorso a dire che deputati del Nord e del Sud provenienti da Fi lo incitavano a difendere la posizione del Pdl in antagonismo alla Lega, alludendo così a un consenso nascosto superiore a quello dichiarato.

Un gioco a poker a carte coperte che il presidente della Camera sta conducendo da qualche giorno annunciando che stanno con lui più di cinquanta tra deputati e senatori, senza tuttavia rivelarne l’identità. Insomma, un elenco di firme anonimo.  Se questa è la tattica dei finiani, la maggioranza del partito farà valere le sue ragioni. A cominciare dal documento approvato al 95 per cento dei voti dalla direzione nazionale del partito.

E non è escluso che nei prossimi giorni si ridiscuta l’assetto dei gruppi parlamentari, dove la vicepresidenza del Pdl alla Camera attualmente ricoperta da Bocchino potrebbe passare di mano.  In questo senso c’è chi lancia l’idea di una raccolta di firme propedeutica alla sfiducia. Se la rottura politica tra Fini e Berlusconi è ormai evidente, le conseguenze non sono ancora tutte prevedibili. Ed è possibile anche una fine traumatica della legislatura se la pattuglia finiana deciderà di far vedere in Parlamento quelle scintille che oggi Fini ha minacciato (e del resto lo stesso Berlusconi non ha nascosto che l’ipotesi del voto anticipato resta ancora sullo sfondo) , perché in quel caso, il governo potrebbe essere costretto ad andare avanti a colpi di fiducia o inciampare in una qualche imboscata.

Ma questo sarebbe il secondo atto di quello che all’Auditorium della Conciliazione molti esponenti del Pdl hanno definito un suicidio politico di Fini e dei suoi. Una cosa è chiara a tutti: non esistono maggioranze alternative a quella legittimata dagli elettori. E sul Colle non c’è Scalfaro.