Tra gli yemeniti di Guantanamo ci sono molti assassini e qualche innocente
14 Gennaio 2010
Obama è un pragmatico, un uomo empirico, in grado di capovolgere anche in brevissimo tempo i suoi piani e le sue decisioni, ma come tutti i realisti incorre spesso in contraddizioni rischiose che sul lungo periodo potrebbero costargli caro sul piano politico e rivelarsi ancora più gravi per l’America, se pensiamo alla soluzione di questioni ancora irrisolte dopo l’era Bush, l’11/9 e la guerra al terrorismo.
Dopo il fallito attacco jihadista del Natale scorso, il presidente è intervenuto per dire “Sia chiaro, il nostro intento è sempre stato quello di trasferire i detenuti di Guantanamo Bay in altre nazioni solo alla condizione che questi Paesi ci diano delle assicurazioni sul fatto che la nostra sicurezza verrà garantita”, si riferiva ai 90 yemeniti ancora rinchiusi a Guantanamo (il nigeriano del Volo Delta è passato nei campi di addestramento dello Yemen). “Ne ho parlato con l’Attorney General e ci siamo trovati d’accordo nel ritenere che non potranno esserci altri trasferimenti di detenuti nello Yemen almeno per il momento”. La preoccupazione della Casa Bianca è che i detenuti rimpatriati possano rinsaldare le fila di "Al Qaeda nella Penisola Arabica", forse la più potente branca della casa madre nel sud dell’Asia, acquartierata nello Yemen.
Il problema di questa amministrazione è che cambia idea molto facilmente. Pochi giorni prima dell’attacco di Natale, infatti, il 19 dicembre scorso, Obama aveva ordinato di trasferire 6 detenuti di Guantanamo nello Yemen (solo uno era stato rimpatriato nell’anno precedente). Questo il commento dell’ambasciatore americano a Sanaa: “la Casa Bianca intende rimpatriare la maggioranza degli yemeniti di Guantanamo”. Capire chi sono i 6 rimpatriati vuol dire anche interrogarsi sul vaso di pandora aperto da Obama con la decisione di chiudere il supercarcere militare, senza aver prima messo a punto una strategia di ampio respiro per risolvere i problemi legati a una gestione giuridicamente corretta di quello che continua ad essere uno stato di eccezione – Guantanamo, la guerra al terrore (e ai terroristi), la definizione dei “nemici combattenti”.
Scopriamo che tra i 6 detenuti rispediti nello Yemen ce ne sono almeno 4 pericolosi, come ci ricorda la Foundation for Defense of Democracies: Ayman Batarfi, “il Dottore”, di casa a Tora Bora, legato al “programma antrace” di Al Qaeda; Jamal Muhammed Alawi Mari, “the money man”, arrestato subito dopo l’11 Settembre in Pakistan con nelle tasche 13.000 dollari e una lista prodotti chimici, farmaceutici, e note sulle caratteristiche di vari tipi di armamenti; l’ubiquo Ryhad Atiq Ali Abdu al Haf’s, “il mujaheddin”, già in forze all’esercito yemenita e poi transitato da “Camp Farouq”, in Afghanistan, il gioiello delle infrastrutture quadiste pre-11/9; Faruq Ali Ahmed, “il bodyguard”, reclutato ai tempi dell’attentato alla USS Cole nel Golfo di Aden e successivamente assunto come guardia del corpo di Bin Laden – un uomo che si vanta di aver imparato a memoria il Corano a 7 anni e che si è difeso dalle accuse spiegando che era andato in Afghanistan solo per fare proselitismo tra i giovani e i ragazzi.
Ci sono anche quelli che si sono trovati rinchiusi a Guantanamo per anni senza aver commesso crimini davvero eclatanti – o forse perché se non fossero stati imprigionati avrebbero potuto commetterli – ed anche quelli, non sono pochi, considerati “innocenti” dalle corti federali americane (non dall’ultimo dei pacifisti inorriditi dal Patriot Act). Come Saeed Hatim, rinchiuso a Guantanamo nel 2002 quando aveva 24 anni, dopo essere stato arrestato al confine tra Pakistan e Afghanistan, perché voleva andare in Cecenia per difendere i suoi fratelli musulmani dalla repressione russa, ma poi, dopo essere arrivato nei campi di addestramento di Al Qaeda, si era reso conto di cos’era il Jihad e che in Afghanistan i musulmani si uccidevano tra loro. Spedito a Cuba, Hatim ha denunciato più volte che le “confessioni” gli sono state estorte con la forza dai militari americani a Kandahar. Tra i principali test dell’accusa nel processo ad Hatim c’era un altro dei detenuti di Guantanamo, un uomo afflitto da problemi psichici e che, secondo i giudici, ha rilasciato delle testimonianze inaffidabili.
Il 16 dicembre scorso, il giudice distrettuale Ricardo Urbina ha decretato che il governo americano non è stato in grado di provare che Hatim era un membro di Al Qaeda e non ha offerto alla corte delle giustificazioni legittime per la sua detenzione. Hatim deve essere rilasciato, dunque, come altri yemeniti ancora a Guantanamo. Il problema è che con la sua ultima decisione, presa dopo il fallito attentato di Natale, Obama ha condannato Hatim a continuare a vivere in una “terra di nessuno” dove non è né innocente né colpevole, semplicemente sospeso fino a nuovo ordine. Aprendo il vaso di Pandora ci trovi Hatim, ma anche personaggi come Hani Abdo Shaalan, rimpatriato in Arabia Saudita nel 2007 e successivamente tornato nello Yemen dopo essere stato sottoposto ai ‘programmi di rieducazione’ sauditi, che non devono essere serviti a molto visto che l’uomo è stato ucciso il 17 dicembre scorso durante un raid dell’esercito yemenita contro le postazioni di Al Qaeda nella penisola arabica. Ci trovi gli innocenti e gli assassini, e i primi restano dove sono, prigionieri, gli altri tornano a combattere come hanno sempre fatto.