Anche il 2008 si chiude con un bilancio tragico. Guerre e conflitti impazzano e viene da chiedersi quando riusciremo a liberarci di questo demone anacronistico chiamato guerra, nonostante le previsioni dell’immediato Post-Guerra Fredda e l’annunciata “Fine della storia”. Con l’eccezione dell’Occidente, in tutte le altre parti del mondo esistono situazioni conflittuali più o meno endemiche. E se l’Occidente non è impegnato in casa, lo è, e molto, all’estero.
In Asia e in Africa queste sono vacanze di guerra. Guerre per lo più dimenticate di cui non si parla mai, o quasi. Che attirano l’attenzione soltanto quando le star hanno bisogno di farsi pubblicità con iniziative benefiche. La cena, la passerella, Emergency, i flash, i bambini del Darfur e via con il teatrino radical chic. Ma tutto finisce con la Serata. E l’Africa resta sola con i suoi problemi. Anzi, con i suoi drammi. Perché, se nonostante tutto in Asia riusciamo a vedere una speranza, una luce, in Africa non possiamo fare altrettanto. Il buio è totale.
Prendiamo la Somalia. Il Paese è al collasso definitivo e i miliziani di Al Shabaab sono pronti a prendersi Mogadiscio e Baidoa non appena le truppe etiopi faranno le valigie e se ne torneranno a casa. Questione di giorni. Qualche settimana fa i capi de “La Gioventù” hanno annunciato le loro intenzioni bellicose in una conferenza stampa convocata proprio nella capitale, in barba al tanto sbandierato controllo della città da parte del “presidente” somalo Abdullah Yusuf. Nel frattempo, in nemmeno un anno, nel Paese sono morte oltre 10.000 persone, mentre l’ONU ha deciso di estendere anche alla terra ferma le operazioni anti-pirateria. E già riaffiorano gli spettri del “check point pasta” e di “Black Hawk Down”.
In Congo, la situazione nel Kivu è disastrosa. Dallo scorso agosto, quando il generale dissidente tutsi Lorant Nkunda ha ripreso le ostilità su larga scala contro le forze congolesi, i morti si contano a decine di migliaia e gli sfollati a centinaia di migliaia. Il copione non cambia se ci spostiamo nel Darfur: stupri, saccheggi, campi profughi. Il problema è che se guardiamo nell’insieme a questi conflitti diventa difficile capire dove stanno le ragioni e dove i torti. Chi possa vantare una giusta causa e chi no.
I comportamenti sono gli stessi: il saccheggio come unico strumento logistico possibile per assicurare il sostentamento della truppa e lo stupro come valvola di sfogo per soddisfarne i primordiali istinti sessuali amplificati dall’adrenalina bellica, nella migliore delle ipotesi, o come strumento di pulizia etnica, nella peggiore. Beninteso, tutte cose che si facevano anche qua in Occidente fino a 50 anni fa. Soltanto che ce ne siamo dimenticati. Ormai riconvertiti al nuovo credo globale dei diritti umani.
In Darfur per anni l’opinione pubblica si è scagliata contro il governo arabo di Khartoum del generalissimo Omar Al Bashir ed i suoi Janjawed, i “diavoli a cavallo”, usati come strumento di guerra per procura. Si è gridato alla pulizia etnica, al genocidio e persino alla caccia al cristiano, ma in realtà molte volte si è solo scambiato il conflitto in Darfur, dove il Governo arabo di Khartoum reprime le spinte autonomiste delle popolazioni musulmane stanziali della regione – e dove si combatte semplicemente per pascoli, terra e acqua – con il decennale conflitto che ha opposto il nord del Paese, arabo appunto, al sud cristiano ed animista e conclusosi con gli accordi di pace del 2005 (che presumibilmente porteranno il Sud Sudan alla totale indipendenza nel 2011).
Nel 2003 quando si aprì il conflitto in Darfur, i principali gruppi della guerriglia erano due, lo SLA (Sudan Liberation Army) ed il JEM (Justice and Equality Movement), entrambi musulmani. Oggi il fronte si è frammentato e si contano ben 12 gruppi di diversa natura ed ispirazione. Molte volte si tratta di schegge delle due organizzazioni principali che via via si sono ingrossate grazie all’afflusso di criminali, banditi, trafficanti… Lerce armate brancaleone che non si fanno problemi ad accanirsi sulla popolazione civile per sopravvivere. Non è un caso che la Corte dell’Aja, oltre ad aver messo sotto accusa Bashir, abbia fatto altrettanto con diversi comandanti di alcuni gruppi ribelli macchiatisi di crimini contro l’umanità. Dall’inizio del conflitto, in Darfur sono morte centinaia di migliaia di persone e molte di più sono state costrette a lasciare le loro case per rifugiarsi nei grandi campi profughi allestiti nel confinante Ciad.
Se ci spostiamo in Congo, la situazione è ancora peggiore. Qui, a 14 anni di distanza, stiamo ancora assistendo ad un tragico strascico del conflitto ruandese che portò allo sterminio di 800.00 tutsi e che poi è proseguito nei due conflitti congolesi del 1996/97 e del 1998/2003 – la Guerra Mondiale africana, come viene spesso chiamata. Nonostante gli accordi di pace del 2003, la situazione nella regione orientale del Kivu non si è mai definitivamente stabilizzata. Il processo di disarmo delle milizie si è risolto in un grande fiasco e nell’agosto di quest’anno la situazione è riesplosa con rinnovata virulenza.
I protagonisti sono quelli di sempre. Da una parte c’è il generale dissidente Lorant Nkunda, paladino della minoranza tutsi del Kivu, i Banyamulenge. Nkunda gode del sostegno del confinante Ruanda di Paul Kagame. Dall’altra, ci sono le forze regolari congolesi, le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (Fdlr), per la gran parte costituite da ex-appartenenti hutu alle Forze Armate ruandesi, coinvolte pesantemente nel genocidio dei tutsi del ‘94, le milizie hutu degli Interhamwe, i veri “genocidari”, e le milizie locali filo-governative Mai-Mai. Fdlr ed Interhamwe si sono stabiliti nella regione dopo che il Fronte Patriottico Ruandese prese il potere a Kigali nel 1994 ponendo fine al genocidio. Da allora sono stati il pretesto per la continua interferenza del Ruanda in Congo. Oggi le schermaglie tra i due paesi continuano e rischiano di deflagrare in un nuovo conflitto generale. Kinshasa chiede a Kigali di cessare il supporto per Nkunda e Kigali a sua volta ribatte accusando il vicino Congo di dare ospitalità ai “genocidari”.
Ma non è finita qui. Da queste parti ogni tanto trova rifugio e sconfina anche il LRA (Lord’s Resistance Army), movimento da anni in lotta contro il Governo ugandese. Il LRA è passato agli oneri delle cronache, naturalmente non italiane, come l’"esercito bambino". Una milizia composta per l’appunto da bambini arruolati forzosamente, drogati e soggiogati ai peggiori istinti sessuali dei comandanti. Ma soprattutto, il LRA è famoso per la sua guida: l’imprendibile Joseph Kony. Autoproclamatosi portavoce di Dio, Kony è il Mao africano: maestro della guerra di guerriglia e uno dei pochi strateghi militari realmente esistenti in Africa. Su Kony pende un mandato di cattura internazionale con una decina di capi d’accusa: dall’omicidio, al sequestro di persona, alla riduzione in schiavitù e così via. Nell’ultima telefonata avuta con il presidente ugandese Museveni ha rifiutato l’ennesimo invito a tornare al tavolo negoziale. Prima devono cadere le accuse nei suoi confronti. Sa che nella giungla nessuno lo prenderà mai.
Ma in nessun campo si può dire che alberghi l’innocenza. Il 28 ottobre scorso, nella città di Kiwanja, i ribelli di Nkunda si sono lasciati andare ad esecuzioni sommarie contro persone accusate di aver spalleggiato un attacco dei Mai-Mai. 150 morti in poche ore. A comandare i ribelli era il luogotenente di Nkunda in persona, Jean Bosco Ntaganda, detto "Terminator". E così fanno anche i militari congolesi o le milizie hutu. Difficile, in questo drammatico tutti contro tutti, intravedere interessi, obiettivi.
I professionisti del pacifismo nostrano ci ripetono da anni la solita storia: armi, ricchezze naturali, sfruttamento e rapacità delle potenze occidentali. Il trittico che poi li porta ad inginocchiarsi di fronte all’altarino del politicamente corretto e a battersi il petto recitando un palingenetico meaculpa. Nessuno che parli mai degli atavici odi etnici, tribali, religiosi, di clan, che portano questi uomini a scannarsi da sempre. Oppure delle elementari pulsioni che li animano: la ricerca del cibo, il semplice sfogo sessuale, il senso dell’onere e dell’onta. L’Africa sta morendo così.