Tra Mubarak e i Fratelli Musulmani: quale futuro per l’Egitto?

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Tra Mubarak e i Fratelli Musulmani: quale futuro per l’Egitto?

Tra Mubarak e i Fratelli Musulmani: quale futuro per l’Egitto?

07 Maggio 2008

Il 4 maggio Hosni Mubarak, Presidente egiziano da quasi 30
anni, è diventato ottuagenario. Il Paese si interroga su quale sarà il proprio
futuro, alla luce del fatto che Mubarak sarà ottantatreenne quando si
svolgeranno le prossime elezioni presidenziali (2011) e, con ogni probabilità,
rinuncerà alla sua ennesima candidatura per motivi di età e di salute. Oltre al
cambio della guardia al Cairo – evento rarissimo, accaduto solo 2 volte in più
di 60 anni di storia, con il passaggio di testimone da Nasser a Sadat e, in
seguito, da quest’ultimo a Mubarak -, gli egiziani sono fortemente preoccupati
per come la nuova dirigenza potrà gestire i problemi strutturali del Paese.

Mubarak, nonostante le promesse di democratizzazione e le
recenti aperture al mercato internazionale, sulla scia della politica dell’Infitah
(“apertura”, appunto) inaugurata da Sadat, non è stato in grado di traghettare
l’Egitto verso un sistema realmente liberale e democratico, stretto nella morsa
di un potere militare fin troppo influente e ingerente nella vita pubblica, e
una società ostaggio della propaganda islamista dei Fratelli Musulmani. La
corruzione che caratterizza la sfera politica e amministrativa non è stata
estirpata, rendendo i processi di riforme quasi del tutto impossibili e
portando a diverse crisi. Ultima in ordine cronologico, quella dell’aumento
spropositato del costo del pane, dovuta alla congiuntura internazionale, con un
aumento generalizzato del costo dei beni alimentari e del carovita, e alla gestione
interna dell’emergenza poco soddisfacente.

La popolazione dell’Egitto cresce a ritmi sostenuti,
migliorano anche le condizioni sanitarie e, di conseguenza, negli ultimi anni l’aspettativa
di vita si è allungata, facendo registrare un boom demografico che sarà
difficile da gestire senza cambiamenti strutturali. In questa cornice, si
inseriscono almeno tre forze: oltre all’elite militare (da cui provengono tutti
e tre i Presidenti che l’Egitto ha avuto nella sua storia moderna) e ai
movimenti di ispirazione islamista ben radicati nel territorio e nella società
(la Fratellanza Musulmana nasce proprio in Egitto nel 1928), l’Occidente e gli
Stati Uniti in particolare prestano grande attenzione agli affari egiziani.
Washington considera Il Cairo come un alleato di ferro in Medio Oriente,
insieme ad Israele, Arabia Saudita e Giordania. Gli aiuti militari che dagli
Usa arrivano annualmente in Egitto sono secondi solo a quelli verso Israele e
il regno saudita, a dimostrazione di un’alleanza che si ritiene imprescindibile
e la cui fine vorrebbe dire una destabilizzazione su larga scala di tutta
l’area mediorientale.

Nonostante la natura autoritaria del regime di Mubarak,
dunque, gli Stati Uniti non sembrano avere interesse a spingere verso un
processo di rapida democratizzazione che, al contrario, potrebbe risultare
addirittura controproducente. Il caso della Palestina è l’esempio lampante di
come, attraverso le urne, si possa arrivare a legittimare e dare peso a forze
che non paiono essere ispirate dai principi democratici, anzi tutt’altro. La
vittoria elettorale di Hamas nel 2006 ha dimostrato che non sempre le elezioni
democratiche portano ai risultati sperati. In quel caso vinse l’ala “islamista”
della resistenza palestinese (contro il laico Fatah di Arafat), facendo temere
una deriva autoritaria e fondamentalista; allo stesso modo i Fratelli Musulmani
hanno un ascendente sulla popolazione da non sottovalutare, tanto da far temere
che, in caso di elezioni trasparenti e realmente libere, potrebbero arrivare
alla vittoria. Gli egiziani sono infatti vessati da un regime che non concede
loro alcuni diritti fondamentali (l’opposizione esiste solo sulla carta e
spesso esponenti di partiti avversi al regime vengono arrestati e le loro
manifestazioni represse) e un Occidente che, agli occhi loro, fa di tutto
perché si mantenga lo status quo. In un siffatto clima le forze islamiste, che
tra l’altro si occupano spesso di fornire i basilari servizi sociali ai
cittadini più poveri (il 40% della popolazione vive con meno di 2 dollari al
giorno), si propongono come l’unica via percorribile per un cambiamento. Si
arriva dunque al paradosso per cui gli egiziani preferirebbero consegnare il
Paese in mano a movimenti conservatori e di ispirazione religiosa che, una
volta al potere, difficilmente potranno portare avanti un adeguato piano di
riforme.

L’unica classe, attualmente in ascesa, che potrebbe
traghettare il Paese verso scenari più rosei, appare essere quella della nuova
generazione di borghesi formatisi in Occidente, con idee liberali e riformiste,
di cui proprio il figlio del Presidente, Gamal Mubarak, pare essere il
rappresentante. Ma riuscirà il rampollo egiziano ad imprimere la svolta
necessaria? Gli ambienti militari già sembrano preoccupati per un simile cambio
al vertice, che costituirebbe comunque un elemento di rottura col passato:
Gamal non è un militare ma un uomo di affari. L’Esercito ha sempre avuto un
ruolo di primo piano negli affari interni egiziani e difficilmente potrà vedere
la sua influenza annullarsi, senza battere ciglio. In questo senso Mubarak
padre ha già pensato di compensare la perdita di peso dei militari nella
politica, consegnando loro ampie fette di quello economico, come il settore
bancario, tramite una privatizzazione non del tutto libera. In questo modo si
creerebbe il presupposto per un cambio di regime e di politiche, dando ai
militari le chiavi del potere economico non alienandosene la fedeltà, da cui
dipende l’esistenza stessa del regime.

I settori sui cui potranno puntare i futuri dirigenti
egiziani saranno quello del turismo ma, soprattutto, quello energetico. A
fronte della possibile nuclearizzazione dell’Iran, l’Egitto, al pari di
Turchia, Emirati Arabi Uniti, Libia e Tunisia, sta mettendo in atto il proprio
programma nucleare, spinto da Stati Uniti e Francia. Ma la vera rivoluzione
energetica potrebbe arrivare dagli sforzi compiuti nel campo delle energie
rinnovabili, soprattutto per quanto riguarda l’eolico. Il Paese  si propone di produrre, a partire dal 2020,
il 20% della totale energia consumata da fonti rinnovabili; ciò porterebbe alla
creazione di migliaia di nuovi posti di lavoro, nonché ad attirare ingenti
investimenti esteri, fondamentali per la crescita economica e sociale egiziana.
Il Cairo si propone così di divenire, nel breve-medio termine l’hub di tutta la
zona compresa tra il Maghreb e il Medio Oriente, per quanto riguarda queste
fonti energetiche. Per far sì che il Paese possa crescere e stabilizzarsi
definitivamente, occorreranno comunque delle riforme anche in senso politico.
In quest’ottica sarà interessante vedere come si svolgeranno le elezioni nel
2011: le prime elezioni realmente multipartitiche della storia dell’Egitto.
Mubarak sta preparando già da due anni la sua successione e sarà il caso che
apra a tutte le forze politiche in campo, se non vorrà consegnare il Paese ai
Fratelli Musulmani.