Tra Storace e Napolitano il codice penale c’entra solo in parte
19 Ottobre 2007
Commentando l’indagine aperta dalla Procura
romana a carico di Francesco Storace per le espressioni ingiuriose rivolte al
Presidente della Repubblica, Alfredo Mantovano (AN) ha sostenuto che
politico. O è cambiato qualcosa dai tempi di Leone e Cossiga?>. E’ una
dichiarazione sconcertante, in bocca a uno stimato giurista, autore, fra
l’altro, di non pochi articoli e saggi dedicati a spinose questioni di diritto
penale. A Mantovano vanno ricordati, sine
ira ac studio, i due fatti inoppugnabili, che conosce bene ma deve aver
rimosso. Il primo è l’articolo Art. 278. del nostro Codice penale: < Chiunque offende
l'onore o il prestigio del Presidente della Repubblica, è punito con la
reclusione da uno a cinque anni>. Il secondo sono le parole di Storace:<
Giorgio Napolitano non ha alcun titolo per distribuire patenti etiche. Per
disdicevole storia personale, per palese e nepotistica condizione familiare,
per evidente faziosità istituzionale. E' indegno di una carica usurpata a
maggioranza>.
Si possono avere tutte le opinioni possibili
sull’operato del Presidente e sulla stessa natura liberale e democratica
dell’art. 278 ma negare che le esternazioni dell’ex governatore del Lazio
offendano
significa prendersi in giro e legittimare abiti
sofistici che fanno inevitabilmente pensare all’Azzeccagarbugli e alla sua
straordinaria abilità di soffocare il buon senso dell’uomo della strada sotto
montagne di codici.
Senza entrare nel merito del contenzioso tra Napolitano e Storace, resta
però il dato inoppugnabile che non ogni affermazione del secondo dovrebbe, almeno in una società
aperta, configurarsi come reato ai danni del primo. Che quella dell’inquilino
del Quirinale sia una
personalmente non condivido ma che non
può venir censurato come se ci si trovasse in uno stato etico. Napolitano è
stato comunista, ha creduto nella via sovietica al socialismo e se è vero che
la sua fede ha vacillato prima ancora dei fatti d’Ungheria è altresì vero che
solo molto più tardi ha avallato lo strappo dall’URSS. Che sotto il profilo
etico-politico, tale biografia possa apparire a qualcuno ‘disdicevole’ non può
essere motivo di scandalo e la stessa obiezione
società liberale degli individui, perde il diritto di denunciare quanto ritiene, a suo insindacabile giudizio,
intollerabile per il fatto di avere anch’egli
qualche cadavere nell’armadio: se così fosse, per ogni denuncia avanzata contro
qualcuno, si dovrebbe esigere il certificato di buona condotta.
Tutt’altra accusa, invece, è
di una critica intellettuale ma di una vera e propria denuncia di immoralità
personale : un’affermazione grave,se non
suffragata da prove certe, che sia rivolta contro il Primo o contro l’ultimo
cittadino della Repubblica. Se infierisco
ideologicamente contro il mio prossimo—tacciandolo di simpatia o di connivenza
verso spietati dittatori come Hitler, Stalin, Pol Pot, Mao, Pinochet—non
offendo il suo onore, né la sua coscienza . Grandi figure storiche di
tagliateste, come Robespierre, erano uomini integerrimi –‘incorruttibili’ per
l’appunto– e quanti ne decretarono o approvarono la condanna a morte,
liberando l’umanità dall’incubo da essi rappresentato, non di rado resero
omaggio al loro rigore e alla loro buona fede (v. La Storia dei Girondini di Lamartine!). Se dare
del comunista (o del fascista) all’avversario rappresenta un uso di armi
verbali che non può venire messo al bando nel conflitto sociale, dargli del
disonesto o del nepotista comporta la
fuoruscita dalla dimensione politica e il passaggio in quella sfera giuridica
in cui ogni accusa dev’essere documentata e ben pesata essendo in gioco l’integrità morale di un
essere umano.
Un
discorso del tutto diverso va fatto, invece, per l’
tratta più di discutibile biografia personale e di
passate scelte di campo–che coinvolgono il traviamento dell’intelligenza–, né
di affarismo nepotistico perseguito approfittando di una carica istituzionale–che chiama in causa la corruzione
del cuore ovvero biechi interessi privati– bensì di‘falsa coscienza’, di un meccanismo di ‘razionalizzazione’ che porta a
fare scelte favorevoli alla propria area di
provenienza quasi per ‘riflesso
condizionato’ e senza porsi alcun dubbio sulla giustezza e l’imparzialità del
proprio agire. Se il giudizio negativo
di Storace fosse fondato, sarebbe inutile nascondersi che il
uscirebbe irrimediabilmente compromesso.
Ma il
giudizio di condanna è poi fondato? Sinceramente
mi sembra difficile rispondere in maniera netta e inequivocabile alla domanda ,
in un senso o nell’altro. Eletto da una maggioranza di centro sinistra,
Napolitano si è sempre mostrato super
partes rispetto alle varie anime di quella maggioranza e, quando lo ha
ritenuto opportuno, ha sfidato la perdita di qualche simpatia richiamando il
governo al ‘senso dello Stato’ e all’osservanza delle leggi e delle procedure.
In varie circostanze ha difeso l’autonomia e le prerogative del Parlamento e, a
quanto s’è poi saputo, qualche volta ha mostrato una forte insofferenza nei
confronti di prassi e di decreti che gli venivano sottoposti.
Ciò riconosciuto non può tacersi, però, che
le pagliuzze nell’occhio della maggioranza gli abbiano nascosto il grosso trave che costituisce la vera, insuperata,
anomalia italiana. Mi riferisco al fatto che abbiamo un governo di
sinistra-centro che, al Senato, si regge solo grazie ai voti di alcuni
ottuagenari senatori a vita. In qualsiasi altro paese civile, il
richiamare gli elettori alle urne, sia
pure solo per la Camera alta (Einaudi lo
fece) costringendoli a eleggere una maggioranza sicura e non equivoca. Per non dir
niente dell’altra linea, ben più
coraggiosa, che un Presidente forte e carismatico pure avrebbe potuto seguire:
quella di invitare i vincitori al foto
finish ad accordarsi con l’opposizione su un governo di ampie intese
impegnato a risolvere i problemi più urgenti sul tappeto, in attesa di nuove e
più chiarificatrici elezioni. E’ quanto è accaduto in Germania, senza scandalo
di nessuno ma è quanto Napolitano, un vecchio signore della politica portato al
Quirinale da una parte del paese (e
di tale parte era, indubbiamente, l’espressione più nobile) non potrà mai proporre.
E allora perché fingere di non capire e dirottare la discussione su binari
polemici che non portano da nessuna parte? Perché non vedere che, al di là
dello stile oggettivamente volgare e
offensivo di Storace, incombe sull’Italia l’ombra di Banquo di una
democrazia liberale gravemente ferita che, da qualche tempo, sembra parlare
attraverso gli editoriali di (un rinsavito) Giovanni Sartori sul ‘Corriere
della Sera’?
Sostanzialmente, non formalmente beninteso, il
governo Prodi rappresenta un vulnus
contro il modello liberale, un ‘colpo di mano’ che umilia anche quei non pochi
Italiani che, al di là della destra e della sinistra, si preoccupano
soprattutto della buona salute delle istituzioni. Sono cittadini che ieri hanno
votato per l’Unione e che, chiamati un domani alle urne, non daranno certo il
voto al Cavaliere ma che, nondimeno, preferiscono essere sconfitti nel rispetto
delle regole che vincere grazie alla divisa di partito fatta indossare in
permanenza ad ottuagenari insigniti del laticlavio senatoriale proprio perché
ritenuti spiriti superiori, au dessus de
la mêlée.