Tre ragazzi, una calda estate romana e un patto che dura per la vita

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Tre ragazzi, una calda estate romana e un patto che dura per la vita

13 Luglio 2008

Gli anni Sessanta sono stati quelli delle proteste studentesche e dei Beatles, i Settanta quelli del piombo e della febbre del sabato sera, gli Ottanta sono appartenuti agli yuppies e ai paninari che si sparavano nelle orecchie la musica elettronica. Allora gli anni Novanta? Il primo romanzo del giovane romano Marco Zarfati, risponde proprio a questa domanda. È la storia di un’amicizia nata nell’afa d’una Roma addormentata nel luglio d’una decina d’anni fa, tra tre ragazzi che hanno fatto un patto: si fa una proposta, anche la più assurda, e gli altri devono per forza rispondere: “io ci sto!”.

Esempio: ad un certo punto Lele conduce i suoi amici all’interno di una riserva naturale del Presidente della Repubblica:

 

“Avevo una gran voglia di correre verso il mare e tuffarmici senza pensare ma al contempo avevo anche una leggera insicurezza. Lele deve avermi letto la preoccupazione negli occhi perché, senza che gli chiedessi nulla, mi ha spiegato: “Qui la costa forma una specie di rientranza, quindi questo punto non si vede né da una parte né dall’altra della tenuta”. Era orgoglioso di averci condotto in quel paradiso terrestre, si vedeva. Ma non si è scomposto più di tanto. Ha cominciato a scendere verso il mare con noi dietro, poi, arrivato a riva, si è spogliato.

 

Completamente.

 

E Tito ha fatto lo stesso.

 

Ero Spiazzato.

 

Mi vergognavo di spogliarmi nudo davanti a loro. Ma volevo sentirmi libero anch’io, essere accarezzato dal vento e dal sole in ogni parte del corpo. Mi sono tolto la maglietta e le ciabatte e, dopo un attimo di esitazione, mi sono sfilato il costume. Ero nudo. In spiaggia.

Il Presidente della Repubblica mi odiava”.

 

Zarfati è un ragazzo di ventotto anni, romano che ha studiato filosofia e relazioni internazionali a Gerusalemme, poliglotta e cosmopolita ma anche amante della città Eterna, nella quale “tornerei sempre”, dice lui. “Io ci sto” (edizioni Fermento, 9,90 euro) fa girare lo sguardo del lettore indietro, verso anni che sembrano troppo vicini per averne già nostalgia, ma è una prima impressione sbagliata. Come direbbe De Gregori: “avevo pochi anni e vent’anni sembrano pochi, poi ti volti a guardarli e non li trovi più”.

 

Lele, Matteo e Tito sono tre ragazzi di Monteverde che “bazzicano” la stessa zona, quella dei “Fortini” e un giorno d’estate si ritrovano tutti e tre in ciabatte e costume e decidono di andare al mare. Saltano su una macchina e si dirigono verso il litorale. Da quel momento al lettore sembra di sentire il vento caldo (tipico effetto gigantesco phon puntato contro) di Roma, quando è deserta, e in giro ci sono rimasti soltanto gli stoici turisti americani, vestiti come Lawrence d’Arabia. Sembra quasi di sentire i quaranta e passa gradi dentro l’utilitaria con i sedili di tappezzeria scura, il sudore, e la musica che s’impasta nella aria calda mentre il trio prende coscienza di esistere. La specialità di Zarfati, infatti, consiste nel riprodurre emozioni. È per questo che mentre i tre ragazzi si ritrovano a fare il bagno nudi nella tenuta presidenziale in cui sono entrati di nascosto ci si sente un po’ colpevoli, come loro. Che succede se arriva qualche guardia e li arresta? O magari gli spara da lontano? Poche pagine e si è già complici delle mascalzonate di questi tre scalmanati, ideali “figli degli anni novanta”.

 

Tito, Lele e Matteo, si perdono e si ritrovano sullo sfondo di una Roma che non esiste già più, dove si poteva andare a Fiumicino a vedere passare gli aerei sopra la testa, che quando arrivavano i 737, allora si che ci si divertiva! Solo si doveva stare attenti a non farsi “beccare” dalle guardie aeroportuali che “ti mettono al gabbio”. Ecco il punto: se non ci fossero quelle guardie, magari guardare gli aerei arrivare non sarebbe così eccitante. In questa Roma era possibile schizzare a tutta velocità sulla moto di Lele verso il mare, dieci minuti e passa la paura. Si potevano spiccare balzi lunari insieme a un aquilone da kitesurf sulle colline di villa Pamphili, tanto quando cadono i ragazzi di vent’anni sono come di gomma, si rialzano subito. Semmai devono stare attenti a non farsi portare via l’anima da qualche bella ragazza disinibita, unici esseri in grado di minacciare l’amicizia di Matteo, Tito e Lele, che riescono pure a “baciarsi tra di loro e a rimanere veri uomini, però”.

 

 

Matteo, Lele e Tito, condividono qualcosa di grande e, dei tre, forse soltanto il primo (alter ego di Marco Zarfati) sembra comprendere fino in fondo cosa significa, o quantomeno, riesce ad farlo capire agli altri senza risultare troppo “femminuccia”. Il cameratismo che si stabilisce nel trio assomiglia un po’ a quello pre-adolescenziale, periodo durante il quale le “femmine” sono considerate persone da evitare: giocano con le bambole e sono civettuole. I tre ragazzi sembrano coscienti del fatto che questo “dolce inganno” sta per finire e lascerà il posto a qualcosa che ancora non conoscono, per questo ne sono spaventati.

 

La Roma degli anni novanta, però, è una mamma per tutti e tre: li accoglie nel suo grembo mentre ancora si sente diversa e distante dal resto del mondo. È un “posto dell’anima” che tutti dovremmo tentare di recuperare, perché altrimenti rischiamo di perdere la strada per arrivarci. È il luogo in cui, chi è nato tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, ha trascorso la sua gioventù (un po’ bruciata), assistendo alla morte di Ayrton Senna, a quella di Freddy Mercury, al tentativo di suicidio di Kurt Cobain (il leader dei Nirvana, Gesù Cristo di noi trentenni) avvenuto all’Hotel Excelsior di Via Veneto. Cobain che, tornato nella sua villa di Seattle, si è sparato in testa con un fucile a canne mozze. Un Dio del Rock troppo sensibile per vivere.

  

I “Ruggenti” anni Novanta sono stati uno dei periodi di maggiore espansione economica del secolo. La benzina costava si è no 30 dollari al barile, gli aumenti dei generi alimentari non preoccupavano le famiglie e con la vecchia valuta si poteva mangiare il pesce senza rovinarsi, ma chi se lo ricorda più? Quella che Zarfati riporta in vita è una Roma che si è già persa nella memoria, forse perché l’Undici Settembre del 2001 ci ha proiettato tutti in avanti, e ci siamo dimenticati di riflettere sul decennio che avevamo appena attraversato. Ora c’è l’occasione per guardare un po’ indietro e scoprire che i simboli dei “Roaring Nineties” sono i verdoni. E i Nirvana.