Trent’anni di studio, 40 di lavoro, 8 di pensione: ecco lo scenario post manovra

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Trent’anni di studio, 40 di lavoro, 8 di pensione: ecco lo scenario post manovra

16 Dicembre 2011

Trent’anni di studio, quaranta di lavoro e otto di pensione. A conti fatti, con l’aiuto della statistica, è questo lo scenario di vita attesa dell’uomo italiano di oggi, dopo la manovra Monti (va meglio alle donne con sei anni di pensione in più). Perché con la riforma delle pensioni, su cui oggi si vota la fiducia, si potrà restare a lavoro fino a 70 anni di età per migliorare il proprio mensile da incassare da pensionati (si chiama flessibilità di pensionamento). Tuttavia, quell’assegno di pensione, anche più consistente, potrà essere goduto per non tanto tempo: solo per 8,8 anni se si è maschi o per 14,1 anni se si è femmine. Fatti i dovuti scongiuri è questa la speranza di vita degli italiani, calcolata dal ministero della salute nella Relazione annuale sullo stato di salute 2009-2010. Insomma una vita di stenti per otto anni di pensione.

Sempre più tardi al lavoro.

L’età media di accesso al lavoro si aggira, oggi, attorno ai 26 anni. Fino a questa età si è in genere studenti, restando a carico della propria famiglia. Una volta approdati sul mercato del lavoro, c’è da aspettarsi un periodo di rodaggio tra occupazioni varie e temporanee, della durata di qualche anno. Poi finalmente arriva l’occupazione stabile e definitiva: sarà un posto da dipendente, da autonomo o collaboratore, rappresenterà la propria principale fonte di sostentamento, nonché il salvadanaio per la vecchiaia: la pensione. Un assegno la cui misura, un tempo, veniva calcolata direttamente sulla retribuzione lavorativa (erano i tempi migliori del cosiddetto sistema retributivo) e che oggi invece dipende strettamente dalla quantità di soldi (contributi) accumulati quando si è lavoratori. È questa una novità della riforma Fornero: «A decorrere dal 1° gennaio 2012, con riferimento alle anzianità contributive maturate a decorrere da tale data, la quota di pensione corrispondente a tali anzianità è calcolata secondo il sistema contributivo».

Addio ai 40 anni.

Quanti anni bisogna lavorare prima di andare in pensione? Fino a ieri questa domanda aveva una risposta chiara e precisa: 40 anni. Perché questo periodo rappresentava il limite massimo di lavoro e di contribuzione considerato utile, dal sistema previdenziale, ai fini del calcolo della pensione. Oggi questo limite non c’è più; altra novità della riforma Fornero, infatti, è l’assoggettamento all’adeguamento triennale dal 2013 (biennale dal 2019) del requisito contributivo unico (i 40 anni) alla speranza di vita calcolata dall’Istat. Non solo; la stessa riforma Fornero ha altresì incrementato il requisito unico portandolo a 42 anni e un mese nel 2012, a 42 anni e due mesi nel 2013 e 42 anni e tre mese dal 2014 agli uomini (un anno in meno alle donne). Inoltre, per via della prima variazione della speranza di vita calcolata dal dm 6 dicembre, nel 2013 il requisito contributivo unico è già salito a 42 anni e cinque mesi per gli uomini e 41 anni e cinque mesi per le donne. E non è ancora tutto; sempre la riforma Fornero, infatti, ha previsto un’altra particolarità: se uno lascia il lavoro con il massimo dei contributi (42 anni e rotti mesi) prima dei 62 anni d’età riceve una penalizzazione sull’importo della pensione. La penalizzazione si applica sulle anzianità contributive antecedenti al 1° gennaio 2012 in misura dell’1% per ogni anno in meno ai 62 anni e fino a 60 anni e dell’2% per ogni ulteriore anno in meno rispetto ai 60 anni di età.

L’alternativa al pensionamento con il massimo dei contributi è la pensione di vecchiaia; le quote, oggi vigenti, dall’anno prossimo non ci saranno più (salvo per alcune donne, quelle di classe 1952). Anche questa è una novità della riforma Fornero: due sole uscite per la pensione, quella di anzianità contributiva e, appunto, il pensionamento di vecchiaia. E pure in questo caso le maglie sono state ristrette, agendo sul requisito età. Oggi si può andare in pensione di vecchiaia anche all’età di 60 anni, dal prossimo anno ci vorranno almeno 62 anni, a regime 66 anni (67 anni dal 2021), fatti salvi ovviamente gli incrementi della speranza di vita Istat. E non è tutto.

A lavoro fino a 70 anni.

Altra novità della riforma Fornero, a proposito della pensione di vecchiaia, si chiama flessibilità incentivata. Ecco come prevista in norma: «Il proseguimento dell’attività lavorativa è incentivato (_) dall’operare dei coefficienti di trasformazione calcolati fino all’età di 70 anni, fatti salvi gli adeguamenti alla speranza di vita (_)». Ciò significa che, se uno resta al lavoro oltre l’età minima per andare in pensione (66/67 anni), ne otterrà il beneficio dell’applicazione di un coefficiente di trasformazione più alto (il coefficiente di trasformazione è l’aliquota percentuale, stabilita dalla legge, che applicata al salvadanaio contributivo determina la misura della pensione). Insomma, è un espediente per spronare i lavoratori a ritardare l’uscita dal lavoro, ossia l’accesso alla pensione. E affinché l’espediente possa risultare efficace, la manovra Monti si è preoccupata di estendere l’applicazione dell’articolo 18 (quello sul divieto di licenziamento) fino all’età di 70 anni, a favore dei lavoratori dipendenti.

Una vita di stenti per… otto anni di pensione.

A voler sintetizzare, la riforma delle pensioni risponde al principio: più lavori più pensione avrai. A tal fine occorre però disporre di sufficienti anni per poter poi godere la pensione. Venendo in aiuto la statistica, (si veda la relazione sullo stato di salute del paese del ministero della salute), si scopre invece che, in media, gli uomini hanno una vita attesa di 78,8 anni e le donne di 84,1 anni. Avendo questi dati è possibile fare qualche conto da economia domestica. Che pone una questione centrale: conviene lavorare fino a 70 anni per godersi la pensione per 8,8 anni? La situazione è leggermente migliore per le donne, con una prospettiva da pensionate lunga 14 anni. Il risultato più interessante resta, tuttavia, un altro. Ossia che non conviene tirare a lavorare fino a 70 anni perché gli anni di pensione (8,8 o 14,1) saranno insufficienti a recuperare nemmeno la metà di quanto versato in contributi durante la vita lavorativa. Gli esempi che seguono (semplici che non considerano la variabile «tempo») spiegano il concetto con i numeri. Per esempio, nel caso di un lavoratore dipendente che guadagna 25 mila euro l’anno, che rimanga al lavoro fino a 70 anni accumulando 40 anni di contributi, riceverà una pensione annuale di 15 mila euro (il 60% della retribuzione) per 8,8 anni (se uomo) oppure per 14,1 (se donna), a fronte di un versato (nei 40 anni) di ben 330 mila euro a titolo di contributi. Fatti i conti, dunque, non tornerà in possesso di quanto pagato in contributi: perché ciò si verifichi, la sua pensione annuale dovrebbe essere di 37.500 euro. Insomma una vita di stenti per otto anni di magra pensione.

ESEMPI

Lavoratore dipendente

Anni di contribuzione = 40

Età di pensionamento = 70 anni

Contribuzione = 33% della paga

Paga media = 25 mila euro annui

Montante contributivo (salvadanaio per la vecchiaia) = 330.000 euro

Pensione annuale (stima) = 15.000 euro (60% della paga)

Importo teorico per rientrare in possesso dei contributi pagati = 37.500 euro (uomini), 23.400 euro (donne)

 

Collaboratore

Anni di contribuzione = 40

Età di pensionamento = 70 anni

Contribuzione = 27% del compenso

Compenso medio = 25 mila euro annui

Montante contributivo (salvadanaio per la vecchiaia) = 270.000 euro

Pensione annuale (stima) = 12.500 euro (50% del compenso)

Importo teorico per rientrare in possesso dei contributi pagati = 30.700 euro (uomini), 19.150 euro (donne)

Lavoratore autonomo

Anni di contribuzione = 40

Età di pensionamento = 70 anni

Contribuzione = 24% del reddito

Reddito medio = 25 mila euro annui

Montante contributivo (salvadanaio per la vecchiaia) = 240.000 euro

Pensione annuale (stima) = 10.000 euro (40% della paga)

Importo teorico per rientrare in possesso dei contributi pagati = 27.300 euro (uomini), 17.000 euro (donne)