Troppa rigidità e “dirigismo”. La riforma del lavoro così prende una brutta piega

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Troppa rigidità e “dirigismo”. La riforma del lavoro così prende una brutta piega

16 Marzo 2012

La riforma del mercato del lavoro va prendendo una brutta piega. Nelle proposte formulate alle parti sociali dal ministro del Lavoro, Elsa Fornero, c’è troppa rigidità sulle modifiche ai rapporti di lavoro, non si intravede alcuna estensione di tutele ai lavoratori precari, ma soltanto un aumento di oneri per le piccole imprese; infine traspare un certo alto grado di “dirigismo”, per quanto è dato di capire finora, sui licenziamenti e sull’art. 18 (il modello “tedesco”).

Nei due documenti con le proposte di riforma del mercato del lavoro – uno per i contratti di lavoro e l’altro per gli ammortizzatori sociali – si legge che l’obiettivo (della riforma) è quello di contrastare il fenomeno della precarizzazione del lavoro. E che per raggiungerlo si seguono tre linee d’intervento: sulla flessibilità in entrata (contratti di lavoro); sulla flessibilità in uscita (precisando che il fine è quello di rendere più adeguata la disciplina limitativa dei licenziamenti individuali per motivi economici); sugli ammortizzatori sociali.

Cominciamo dal primo punto. Sulla flessibilità in entrata non viene previsto alcun taglio alle vigenti tipologie contrattuali, ma l’introduzione di disincentivi all’utilizzo tramite incremento dei controlli, revisione delle sanzioni e aumento del costo del lavoro. Questi i dettagli.

Contratti a termine. La proposta è l’aumento del costo contributivo con maggiorazione dell’aliquota destinata alla nuova indennità di disoccupazione (Aspi): 2,7% invece di 1,3% ordinaria. Tuttavia, tale maggiorazione sarà recuperabile dall’azienda in caso di conversione del rapporto a tempo indeterminato. Ancora, si prevede una più rigida disciplina in tema di rinnovo dei contratti mediante l’aumento dell’intervallo di tempo che deve passare tra la scadenza del primo e la stipulazione del secondo rapporto. Infine, si prevede una facilitazione per impugnare il contratto: il lavoratore non dovrà più decidere entro 60 giorni dalla cessazione, ma entro nove mesi.

Apprendistato. Si propongono correttivi al Tu (dlgs n. 167/2011), la cui entrata a regime è fissata al 25 aprile, tra cui quello di condizionare la facoltà di assunzione di apprendisti alla conferma in servizio, da parte dell’impresa, di una certa percentuale dei precedenti rapporti di apprendistato.

Part time. Si propone un obbligo di comunicazione, contestuale al preavviso che il datore di lavoro è tenuto a dare al lavoratore, ogni qualvolta c’è ricorso a clausole flessibili o elastiche.

Contratto intermittente. Anche in tal caso la proposta è una comunicazione obbligatoria, «con modalità snelle (compreso il messaggio telefonico)», in occasione di ogni chiamata del lavoratore.

Collaborazioni a progetto. Gli interventi mirano a restringere il ricorso alle co.co.pro. In primo luogo si propone una nuova definizione più stringente di “progetto” e l’abolizione del “programma”. Si prevede poi l’eliminazione della facoltà che consente il recesso del committente prima della scadenza del termine e/o del completamento del progetto. In sostanza in assenza di una “giusta causa” le aziende non potranno più lasciare a casa il co.co.pro.; pertanto, una volta sottoscritto il contratto, la collaborazione andrà portata necessariamente a termine, fino alla scadenza prevista dallo stesso contratto o fino al completamento del progetto. Sul versante dei contributi, infine, si prevede l’aumento dell’aliquota Inps.

Partite Iva. Salvo che si tratti di professionisti, si propone una presunzione salvo prova contraria del carattere coordinato e continuativo (e non autonomo ed occasionale) per quei rapporti di lavoro autonomo (con partita Iva) che durano più di sei mesi in un anno, con ricavi superiori al 75% del fatturato e postazione di lavoro in azienda. Queste, praticamente, verranno convertite in rapporto a tempo indeterminato, in quanto ritenute false co.co.pro. (cioè prive di un progetto).

Associazione in partecipazione. La “bonifica” del fenomeno è proposta attraverso l’introduzione del numero massimo di associati di lavoro (o di capitale e lavoro). Previsto, inoltre, l’aumento dell’aliquota Inps.

Lavoro accessorio. La proposta (ancora allo studio) è finalizzata a restringere il campo operativo e il regime di orario.

In conclusione, le proposte di riforma risultano molto incisive con riferimento al rapporto di lavoro a termine (soprattutto per la parte relativa alla una nuova procedura di impugnazione dinanzi al giudice) e per le collaborazioni (sia lavoro a progetto che partite Iva). Nel complesso, è presumibile che gli interventi avranno l’effetto di produrre una nuova “ingessatura” del mercato del lavoro, quella scongiurata dalle recenti riforme (Biagi, anticrisi 2008) dell’ex ministro del lavoro, Maurizio Sacconi; riforme che hanno contribuito, più di tutto, a fare emergere lavori che prima languivano nel “sommerso”. Le proposte, probabilmente, sono una parte della “moneta di scambio” per la firma dell’accordo da parte della Cgil (che – è a cronaca di ieri – vive seri problemi di sostenibilità all’interno della sua organizzazione). Sorprende, infatti, che nell’80 per cento dei casi si tratti dei medesimi suggerimenti formulati nel XVI Congresso del sindacato rosso («riunificare il mercato del lavoro», 2010). A tratti, addirittura, la proposta del ministro Fornero sembra “colloquiare” con quel documento. Per esempio, riguardo alla riforma delle Partite Iva spiega che «la soluzione proposta è pensata come alternativa alla ridefinizione della nozione di lavoro subordinato in modo tale da inglobarvi la dipendenza economica, che è molto controversa e che appare poco controllabile in assenza di una rimodulazione generale delle tutele riconducibili ai vari lavori»: appunto una risposta al suggerimento della Cgil di «riforma degli artt. 2094 e 2095 del Codice civile, al fine di unificare i diritti del lavoro alle dipendenze altrui superando le distinzioni oggi esistenti sul piano del costo contributivo, dei diritti e del trattamento economico, garantendo che a eguale prestazione corrispondano eguale compenso ed eguale diritti».

Passiamo al secondo punto: gli ammortizzatori sociali. La sorpresa è che i co.co.pro., i precari per antonomasia, restano a bocca asciutta. Nella proposta Fornero, infatti, non c’è estensione delle nuove tutele alla categoria dei collaboratori, pur abrogando l’unica provvidenza di cui disponevano, ossia l’una tantum introdotta quattro anni fa dal governo Berlusconi. La proposta di riforma si articola su tre pilastri principali: assicurazione sociale per l’impiego (Aspi); tutele in costanza di rapporto di lavoro (cigo, cig, fondi di solidarietà); strumenti di gestione degli esuberi strutturali. La novità assoluta è dunque rappresentata dall’Aspi, una nuova prestazione destinata a sostituire le vigenti indennità di mobilità e indennità di disoccupazione di tutte le specie (ordinaria, con requisiti ridotti, speciale edile). La riforma, spiega il documento del ministro Fornero, si caratterizza per l’incremento dell’ambito soggettivo di copertura che viene esteso agli apprendisti e agli artisti (dipendenti), oggi esclusi. Inoltre, si legge ancora, restano coperti dalla nuova tutela tutti i lavoratori dipendenti del settore privato e i lavoratori pubblici con un contratto di lavoro “dipendente” non a tempo indeterminato. Di parasubordinati (co.co.pro. e altri contratti flessibili) invece non si parla; e, pertanto, devono ritenersi esclusi dal beneficio. E non deve trattarsi di mera distrazione poiché, di co.co.co., se ne parla a proposito delle abrogazioni. Infatti, la riforma prevede che siano eliminate le seguenti prestazioni: indennità mobilità, incentivi per iscritti nelle liste di mobilità, disoccupazione nei casi di sospensione, disoccupazione per apprendisti e una tantum per co.co.co./co.co.pro.

Ultimo punto, la riforma dei licenziamenti. Qui non esiste ancora una proposta ufficiale, cioè un documento con qualche indicazione di lavoro; dunque, ci si muove ancora nell’ambito delle idee e dell’incertezza. La tesi più accreditata sembrerebbe quella del modello tedesco. Ma è anche quella più preoccupante (ovviamente dipenderà anche dagli “adattamenti” che se ne vorranno fare), perché non sarebbe la soluzione capace di risolvere il “problema dei problemi” delle aziende in tema di licenziamenti: l’incertezza dell’esito dell’eventuale impugnazione davanti ad un giudice. Anzi, sotto questo aspetto, la situazione potrebbe addirittura peggiorare. In sostanza, se dovesse passare questo modello tedesco, il licenziamento diventerebbe possibile per motivi disciplinari e per motivi economici. Nel primo caso, tuttavia, al lavoratore resterebbe la facoltà di impugnarlo e, in tal caso, verrebbe affidato al giudice la decisione tra reintegro o pagamento di un indennizzo economico: dove starebbe dunque la novità? Come oggi le aziende si vedrebbero costrette a regnare in un lungo tempo di incertezza con l’ulteriore differenza che, mentre oggi a fare quella scelta è il lavoratore (tra reintegro o indennità), nel futuro spetterà al giudice. Quanto ai licenziamenti economici c’è un interrogativo di fondo che merita urgente risposta per comprendere la portata della riforma; ed è questo: una volta individuate le ragioni, ossia i motivi economici che consentono il licenziamento, eventualmente il lavoratore dovesse impugnare il licenziamento, sarà sempre il giudice a decidere sulla sussistenza o meno del giusto motivo di licenziamento? Se la risposta è affermativa (e non sembra possibile altra), è chiaro che anche in questo caso si finirebbe per non risolvere nulla dei problemi di oggi.

I lavori sono ancora in corso. Ieri, al vertice dei Partiti con il Premier, Mario Monti ha ricevuto delega a trattare e concludere anche sulla riforma del mercato del lavoro. Aspettiamo fiduciosi, ma consapevoli che la posta in gioco è davvero alta: il futuro dei giovani.