Troppo facile accusare i videogiochi della violenza giovanile
13 Luglio 2008
di Paola Vitali
L’inghilterra si trova a fare i conti con un’intera generazione di ragazzi all’incirca fra i sedici e i diciannove anni, in giro per le strade con coltelli e armi d’ogni genere, non impegnati in un’occupazione, un percorso di studi o un apprendistato, e con acronimo ribattezzati neets – not in education, employment or training. Ci sono all’incirca un milione e duecentomila persone fra i sedici e i ventiquattro anni che non producono reddito, non hanno intenzione di produrne, e sono interamente a carico di qualcun altro. Essendo tra l’altro in maggioranza membri delle classi medie britanniche, anzichè provenienti da famiglie di immigrati, come sarebbe naturale prefigurarsi.
Meno di due anni fa era apparso il poderoso studio statistico dal titolo “Breakdown Britain”, opera fortemente voluta da David Cameron. Sir Duncan Smith trovava le ragioni del penoso impoverimento morale della nazione nella proliferazione di nuclei monoparentali e unioni di fatto. Dati alla mano: le convivenze naufragano con una frequenza dieci volte maggiore dei matrimoni, capaci di resistere meglio agli urti dei difficili primi anni con figli piccoli; aumenta costantemente (a oggi il quindici per cento) il numero dei bambini che nascono e crescono senza uno dei genitori, di solito il padre, e al contempo il settanta per cento dei ragazzi responsabili di crimini e violenze vengono da famiglie costituite da un solo adulto. Non solo: i ragazzi che vivono senza un genitore corrono rischi ben maggiori di subire il fascino di alcool e droghe, mentre un campione di duemilacinquecento persone adulte, cresciute in compagnia di un solo adulto di riferimento, già ha vive una vita segnata da fallimenti scolastici, indebitamento o disoccupazione – e quindi di dipendenza dall’assistenza pubblica.
L’irregolarità familiare insomma parrebbe condurre – statisticamente, s’intende – a conseguenze sociali non proprio trascurabili. E non per caso Cameron nel presentare il rapporto si era detto convinto che la misura per fermare il disfacimento della società inglese non potesse essere altro che il completo rovesciamento delle passate politiche laburiste, ovvero l’incoraggiamento delle unioni tradizionali.
La notizia dell’ennesima uccisione per strada di un ragazzino stavolta è stata accompagnata dal tempestivo e subito amplificato commento di Noel Gallagher, leader della band Oasis, il quale in occasione di un premio musicale assegnatoli nella stessa giornata, ha sparato le solite frasi banali sulla violenza. Secondo lui i ragazzi sono ormai abituati a percepirla come una cosa normale, di poco conto, e una connotazione di identità, e sempre a sentir lui, guarda un po’ che novità, il seme della violenza verrebbe dai videogiochi. Il solito Satana utile per tutte le stagioni. Per non far mancare nulla, ha buttato lì anche un po’ di commenti qualunquisti sparsi, tra cui il solito j’accuse per l’era thatcheriana, che avrebbe dato il via a tutto lo sfacelo del paese.
Sarebbe il caso di sciorinare all’ex ragazzaccio del rock (uno che si è dato una calmata negli ultimi tempi, ma che ne ha combinate sempre di cotte e di crude; quindi non proprio il più credibile dei moralisti, anche se una seconda occasione si è lieti di concederla a tutti, e poi fa sempre presa ascoltare le prediche degli attempati guru della trasgressione) qualche dato sui disastrosi anni di politiche sociali di Blair, altro che rispolverare la Thatcher.
Ma volendo per un volta prendere le difese della vituperata industria dei videogames, qualcuno potrebbe dirgli che non sono sempre e solo i videogiochi a fare di un ragazzo normale un criminale, bensì magari anzitutto famiglie disattente e inabili che lasciano che i propri figli assorbano per intere giornate e senza filtri quanto può arrivare da un gioco e dall’esposizione eccessiva alle sue intense sessioni, e perdano un equilibrio già fragile in partenza senza riuscire a esercitare un grammo di spirito critico?
Sono anni e anni che l’industria dei videogiochi, fra le più proficue e solide del settore dell’intrattenimento a livello mondiale (in molte annate capace di superare senza difficoltà i proventi dell’industria cinematografica) è sotto attacco. Facile ovviamente prendersela con molti titoli di enorme successo, come Mafia o il famigerato Grand Theft Auto, tanto per citare i più violenti, assolutamente non adatti ai minori. Chiunque si trovi davanti alle sequenze di GTA in cui ammazzamenti, investimenti d’auto e violenza gratuita regalano punti al giocatore, non può non pensare subito a quali danni possano provocare in una mente plasmabile e impressionabile come quella di un ragazzino. Ma mai uno che si levi a dire che il tipo di humour e di follia su cui si basano hanno come maestri in molti casi il Tarantino di Pulp Fiction, per esempio, a cui però nessuno si è accanito di continuo a rimproverare di essere la rovina delle nuove generazioni per istigazione alla violenza. Cogliendo in pieno il registro, appunto “pulp”, del film.
Il punto è che i videogiochi da soli non possono trasformare un ragazzo equilibrato, cresciuto in una famiglia normale e che abbia saputo trasmettere un minimo di regole di convivenza civile, di buon senso, uno straccio di moralità, in un assassino latente che davanti a un pub una sera di sabato tiri fuori un coltello e se la prenda con un ragazzino che gli ha dato dello scemo o ha guardato la sua ragazza. Per girare armati per le strade, avere la capacità di uccidere qualcuno senza pensarci un attimo e pensare che tutto questo sia un gioco, la tua vita deve già essere un bel casino, altro che videogiochi.