Troppo rumore per nulla, meglio far parlare l’arte
12 Ottobre 2008
Finalmente l’abbiamo vista. Per mesi il piccolo mondo dell’arte italiana, non ha fatto che parlare, commentare, stroncare e difendere Italics, arte italiana fra tradizione e rivoluzione: l’antologia sull’arte italiana dal 1968 ad oggi, organizzata da Palazzo Grassi di Venezia (28 settembre al 22 marzo) e dal Museum of Contemporary Art di Chicago.
Non che la mostra portava delle novità che potessero cambiare il corso della storia dell’arte, ma il piccolo mondo dell’arte italiana si arrovellava su questioni etiche, litigi, accuse e ripicche che si sono scatenate intorno ad essa.
Alcuni critici e artisti contro il curatore, Francesco Bonami accusato di revisionismo per aver inserito alcuni artisti scadenti e di non aver invitato altri che secondo gli accusatori ne avevano pieno diritto. Così una lunga sequenza di insulti da Achille Bonito Oliva: “Servo del potere che sparecchia come un cameriere” all’artista Mimmo Paladino “È un parvenu, un pittore mancato” fino ad arrivare al caso simbolo della tenzone di un’ opera di Jannis Kounellis (Scarpette d’ oro, 1971) voluta dal curatore e contestata dallo stesso artista, che dopo una tiritera durata mesi è stata definitivamente ritirata.
Bonami non è stato certo a guardare o a sentire, sul Corriere Magazine ha commentato la decisione di Kounellis di non esporre l’opera a Venezia con un secco “ecco perché le opere di Kounellis valgono 300.000 euro e quelle di Cy Twombly 5.000.000; i rifiuti si pagano”, e recentemente ha definito un suo dipinto “meglio di uno di Paladino”.
Evidentemente sgarberie personali, attacchi, lettere di protesta non sono una novità nell’arte italiana. Lo stesso era accaduto un anno e mezzo quando il PS1, storica istituzione giovane, per quanto in evidente declino, di New York aveva deciso di dedicare una mostra alla giovane arte italiana. Dopo un po’ di schermaglie seguite ad una non certo irreprensibile condotta dello staff del PS1, un folto gruppo di artisti si era rifiutato di partecipare con tanto di lettera, sia per la scarsità dei mezzi economici messi a disposizione (freno decisamente comprensibile) sia (come per Italics) per la selezione di artisti non ritenuta di buon livello.
Il risultato in quel caso è stata la decisione da parte del PS1 di organizzare una mostra in forma ridotta con quei pochi che hanno voluto mantenere fede all’iniziale invito ricevuto.
Nella provinciale abitudine auto-celebrativa e poco propensa al confronto con l’estero, gli auto-esclusi di fatto non hanno che limitato ancor di più la loro già quasi assente notorietà avvallando inoltre la convinzione che il panorama dell’arte italiana fosse solo quello in mostra.
Oggi, a seguito delle beghe da condominio che hanno preceduto Italics, non stupisce che la nuova generazione si sia comportata cosi, e forse può spiegare perché l’arte italiana venga messa in disparte rispetto ad altre in cui gli artisti si supportano a vincenda invece di rifiutare mostre o eventi per la presenza di qualcuno di non gradito.
In ogni mostra collettiva, specie quando si tratta di una mappatura nazionale o generazionale vi sono presenze o assenze giustificate o no, che sono un legittimo diritto del curatore, il quale ha poi la responsabilità di sostenere le scelte con un impianto critico solido anche se giustamente criticabile.
Presentando Italics, Bonami ha sempre difeso la sua selezione affermando di aver scelto in base al valore del singolo lavoro, del suo impatto sulla ricerca artistica senza considerare il progetto complessivo del suo autore.
Ora che è finalmente inaugurata si possono fare i conti ed è proprio sui singoli lavori di cui parla Bonami che la mostra lascia un po’ perplessi. Perché se ci sono bellissimi momenti come i tre ambienti di Lucio Fontana (Ambiente Spaziale, 1968), Gianni Colombo (Spazio Elastico, 1967-1968) e Getulio Alviani (Interrelazione Cromospeculare, 1969), o Autoritratto di Alighiero Boetti (1993) felicemente installato sulla piattaforma sul canal grande, è anche vero che grandi maestri come Mario Merz, Giulio Paolini, Gino De Dominicis, Sandro Chia, non sono rappresentati con le loro opere più importanti, quelle che sono nelle collezioni dei migliori musei del mondo. Lo stesso vale per artisti più giovani come Vanessa Beecroft, Monica Bonvicini o Roberto Cuoghi, che non hanno in mostra i loro lavori più rappresentativi.
Sicuramente quelli presenti sono lavori simbolicamente importanti, ma ancora una volta in un panorama esclusivamente nazionale. Le polemiche provinciali sembrano aver fatto dimenticare l’assunto curatoriale secondo il quale Italics avrebbe dovuto “riprendere idealmente il discorso interrotto da Germano Celant al 1968 con la mostra Italian Metamorphosis (Guggenheim, New York, 1995), e avrebbe dovuto essere anche l’occasione di ‘esportarè i 106 artisti scelti da Bonami negli USA, in quella realtà collezionistica e museale che ha sempre circoscritto l’arte italiana a pochi nomi”. Per far cio’ forse si sarebbe dovuto puntare sui lavori più importanti, quelli più prestigiosi.
Manca alla mostra la potenza degli igloo di Merz, l’eleganza dei gessi concettual-classici di Paolini, la forza espressiva dei grandi quadri della Transavanguardia, o i corpi nudi delle performance della Beecroft che hano fatto segnato gli anni ’90: lavori che hanno messo gli artisti italiani in dialogo con quelli internazionali, come quelli di Maurizio Cattelan. È lui il vero trionfatore della mostra e punto d’arrivo di quaranta anni di storia dell’arte italiana. Sue le nove sagome di marmo come cadaveri coperti da un lenzuolo (All, 2008) che aprono la mostra nell’atrio del palazzo e con le quali dopo Manzoni, De Dominicis, Boetti, si dedica alla rilettura in chiave personale di Luciano Fabro. L’arte, questa e quella dei maestri, è un insieme chimico, un misto di tradizione e rivoluzione e parla senza farlo. Tutto il resto è un’inutile perdita di tempo, non tanto parole in libertà ma piuttosto molto rumore per nulla…