Troppo scomodi. E Singapore censura i film sul terrorismo

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Troppo scomodi. E Singapore censura i film sul terrorismo

27 Aprile 2008

Al via la XXI edizione del
Singapore International Film Festival. Il governo ha impedito la proiezione di
“Arabs and Terrorism”, un documentario senza troppe pretese sulla guerra al
terrorismo. Era proprio necessario?

A Singapore la censura colpisce
il cinema, internet e i videogiochi. Nella città-stato celebre per i suoi grattacieli,
i casinò e le gare di Formula Uno, il governo tende a occultare i conflitti (esterni
e interni) nella speranza di preservare intatti i codici su cui si regge la
comunità. Il multiculturalismo, un capitalismo mitigato da forti iniezioni
keynesiane, l’autorità confuciana che si è fatta meritocrazia.

“Arabs and Terrorism” è stato
censurato perché mette sullo stesso piano il terrorismo e chi cerca di
combatterlo, giustificando in qualche modo la rabbia contro l’Occidente. Un
messaggio pessimo, quello lanciato dal film, ma anche la purga non scherza. I
saggi governanti di Singapore considerano la libertà di espressione come un
nefasto effetto della occidentalizzazione che ha colpito il paese nel
Dopoguerra. Di certe cose è meglio non parlare perché turbano la coscienza
popolare. “A Jihad for Love”, un altro dei film in concorso, è stato censurato
perché parla di musulmani gay e lesbiche.

Anche in Occidente si va
diffondendo questa idea per cui, pur di trovare mediazioni e comunanze tra
civiltà diverse, è necessario astenersi, mostrarsi neutrali verso ‘l’altro’. Il
risultato? I diritti dell’individuo vengono sottomessi a quelli della comunità.
Quando si nega la ricerca della verità – intesa come scambio delle idee –, al confronto si sostituisce il consenso e diventa impossibile una
critica serrata dei prodotti culturali ‘incriminati’. Paradossalmente, la
censura crea ‘il caso’ e quei prodotti, che magari non avevano nulla di
sensazionale, iniziano a circolare come se fossero una testimonianza dal valore
imprescindibile.

“Arabs and Terrorism”, per esempio,
è un film per ragazzini girato in modo abbastanza dilettantesco. In 135 minuti
di riprese con la telecamera in spalla, il regista Bassam Haddad e la sua crew
mettono insieme una valanga di figurine trasparenti, nel tentativo di mostrare
“cosa pensano davvero gli arabi” sul terrorismo. Vengono intervistati luminari
del jihad egiziano e attivisti antiglobalizzazione, cattedratici e
neoconservatori della prima ora. L’American Enterprise Institute e Al Jazeera
finiscono nello stesso piatto, in un purea dal sapore indigesto.

Ovviamente a uscirne malconci
sono personaggi come Daniel Pipes e Jeane Kirkpatrick, che appaiono gli unici ‘ossessionati’
dalla guerra al terrorismo. Un fenomeno storico che – secondo gli autori del
film (e la maggioranza degli intervistati) – avrebbe origine proprio negli
stati che cercano di combatterlo con le Cluster Bomb. Questa versione del mondo
conduce immancabilmente in qualche segreto ufficio di Washington e mai e poi
mai nelle casematte del mondo arabo. Il film si conclude con il solito birignao
sul “dialogo” tra Oriente e Occidente.

Come dire, i motivi che hanno
spinto a bloccare il film sono condivisibili in linea di principio, ma la
censura no, si è dimostrata un errore tattico e strategico. Meglio ancora, è un
effetto collaterale del socialismo vagamente conservatore al potere a Singapore
(la filosofia del People’s Action Party, codificata dal “Maintenance of
Religious Harmony Act” del 1990 e poi nel libro bianco degli “Shared Values” apparso
nel 1991). L’idea di una società multirazziale e pragmatica che non si fa
troppe domande, tacendo quando invece avrebbe tutto il diritto di stroncare i
film in concorso al Festival del cinema. La stroncatura è cento volte più
funzionale della censura, no?  

D’altra parte il governo di Singapore ha una sua precisa e specifica
idea sul ‘dialogo’ e sui rapporti tra le civiltà, che appare molto diversa da
quella esposta nel documentario. Nel modello singaporese le regole economiche
del globalismo sono state accettate ma, nello stesso tempo, una serie di
paletti etici e morali distinguono la vita della città-stato da quella
occidentale. Parliamo di un popolo maturo, con le sue tradizioni e la sua
storia, che mette al primo posto la famiglia e la difesa dell’armonia razziale
e religiosa. Proprio per questo gli spettatori del festival avrebbero potuto giudicare
il documentario di Haddad per quello che è, una torre di Babele che dice tutto
e niente. Invece la maggioranza silenziosa ha accettato il paternalismo delle
classi dirigenti che usano la censura per disinnescare i conflitti e mettere in
formalina la propria identità.