Trump 2: la vendetta

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Trump 2: la vendetta

10 Ottobre 2016

Era il dibattito del tutto per tutto di Trump. Era il dibattito del colpo di grazia per Hillary Clinton. È stato il dibattito più duro della storia recente Americana. Questo il giudizio dei commentatori USA. Particolare nota di merito va al sondaggio della CNN, dove il 57% dei partecipanti, a caldo, ha dato la vittoria a Hillary Clinton. Peccato che il 58% del campione, prima ancora di assistere alla performance, avrebbe votato per lei. Ed è da questo che occorre partire: siamo in un cortocircuito mai visto prima oltre Atlantico. Mai, prima di oggi, dirsi Repubblicani era stato tanto difficile, tanto rischioso e tanto eccitante.

Mai, mai prima, nemmeno durante la guerra in Iraq o quella in Vietnam, appoggiare il candidato del Grand Old Party poteva causarti il licenziamento sul lavoro, l’espulsione dal consesso civile o la ghettizzazione. Mai prima di oggi era stato rischioso persino parlare del proprio candidato. Trump ha ingaggiato l’elefante nella stanza, il mostro nascosto nell’armadio e sotto il letto della più grande democrazia del mondo, a mani nude, nella notte di Domenica, ed il pubblico Americano è rimasto interdetto. Donald ha aggredito il politicamente corretto senza mostrare paura, con la certezza che poteva anche perdere, ma che arrendersi avrebbe significato la sconfitta dell’intero Paese.

Un passo indietro. Trump entrava nel dibattito dopo lo scandalo delle dichiarazioni rubate dieci anni fa in cui si vantava di poter sedurre una donna sposata e di poter fare ciò che voleva alle donne in quanto famoso. È una frase oggettivamente brutta. Lo ha riconosciuto anche lui, ma ha scaricato la cosa in due fasi. La prima era normale amministrazione: erano discorsi da spogliatoio. Qualcosa di più privato delle chiacchiere da bar, dove il maschio, o quel che la società moderna ne ha risparmiato, è libero di esistere al di fuori del politicamente corretto. Può essere se stesso. Anche se è brutto e puzza, anche se fuori dallo spogliatoio verrebbe colpito per questo.

Da qui nasce l’attacco su cui tutti hanno sorvolato, ma che sta alla base della narrazione politica di Trump per il secondo dibattito: Clinton è piena di odio. Tutto il resto della serata è premessa o conseguenza di questo assunto. I giornali americani puntano sulla battuta rivolta da Trump alla Clinton (“con me saresti in galera”) per accusarlo di voler zittire brutalmente – addirittura minacciando il carcere– gli oppositori. Ma è esattamente il contrario: il Don ha semplicemente spiegato che un privato cittadino che avesse fatto quello che ha fatto la Clinton, cioè cancellare alcune mail mentre era in corso un’indagine, sarebbe già in galera, e che la segretaria di stato ha goduto di un trattamento speciale. Ma tutto ruota attorno ad una premessa antropologica. Hillary lo odia. Non in quanto essere umano, ma in quanto archetipo. Lei è il diavolo, dirà poi. Questo è il punto focale. Lui è un maschio, bianco e sotto accusa da parte del mondo. Esattamente come i suoi elettori.

Lui di questo se ne frega, perché si è stufato di dover accettare tutti come sono mentre il mondo gli impone come deve essere. Come i suoi elettori. Lui è stanco di vedere una maestrina che gli dà lezioni, che gli spiega quanto inferiore debba sentirsi e che lo calpesta con i suoi modi affettati e distaccati. Come i suoi elettori. E come tutti i cittadini che non osano confessare di votarlo per paura delle reazioni che potrebbero suscitare. Dello stigma sociale. Che agli amici diranno sempre di aver votato Hillary. È un fenomeno che nessuno oltre oceano pare riconoscere, ma che noi, qui, abbiamo abbondantemente visto. È il fenomeno Berlusconi. Ieri sera sul palco si sono scontrati Travaglio e Silvio. E Silvio, ieri come l’altro ieri, non può che vincere.