Trump-Clinton, se Hillary perde i Democratici finiranno in esilio per molto tempo
25 Settembre 2016
Tutto è pronto per la sfida elettorale dell’anno, il primo faccia a faccia tra Donald Trump e Hillary Clinton per la conquista della Casa Bianca alle presidenziali di novembre. Novanta minuti di confronto che andranno in scena lunedì sera alla Hofstra University di New York, con The Donald che ormai sembra aver riacciuffato Lady Clinton nei sondaggi.
Occhi puntati sui candidati, dunque, ma anche sui partiti che li sostengono. O almeno dovrebbero farlo. Si è parlato moltissimo della valanga Trump, dell’establishment repubblicano che gli rema contro, e della crisi dell’Elefantino, ma sappiamo molto meno su che fine faranno i Democratici se Hillary Clinton dovesse perdere le elezioni.
Nell’articolo che vi proponiamo, tratto dal New York Post, l’analista politico Michael Barone fa il punto della situazione, mettendo in evidenza i punti di debolezza, attuali e futuri, dei due grandi partiti americani, in particolare “l’esilio” al quale rischia di condannarsi il partito democratico dopo una eventuale sconfitta della Clinton.
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Ci sono state un sacco di speculazioni sul destino del Partito Repubblicano se Donald Trump dovesse perdere le elezioni (come si aspetta e spera la maggioranza di coloro che fanno pronostici). Ce ne sono state molte di meno sul destino del Partito Democratico se a perdere fosse Hillary Clinton, nonostante i sondaggi più recenti indichino che questo è possibile.
Certo c’è ragione di pensare – o paura – che il Partito Repubblicano cambierà. Probabilmente i Repubblicani non offriranno più la maggior parte del sostegno agli accordi di libero scambio, come hanno fatto in modo crescente negli ultimi quarant’anni. Né i maggiorenti del partito faranno più pressioni per ottenere sanatorie di massa dei migranti clandestini, com’è avvenuto nel 2006, 2007 e 2013.
Se Trump perde, l’elettorato repubblicano si ritroverà più rosicchiato e invecchiato, la continuazione di un processo in corso dalla metà degli anni Novanta. La migrazione a lungo termine degli elettori verso Sud, lungo la “Interstate 95”, renderà la Costa Orientale un terreno altrettanto solido per i Democratici come quella Occidentale, lasciando ai repubblicani superstiti le zone interne del Sud e le Grandi Pianure.
Gli anti-trumpisti Repubblicani sperano che l’effetto Trump semplicemente svanisca, e va detto che un Trump perdente non dovrebbe avere grosse conseguenze sulla natura dell’apparato istituzionale del partito, come invece presumibilmente avvenne con la sconfitta di Barry Goldwater nel 1964. L’idea di un ritorno a posizioni pre-Trump, però, è indebolita dal fatto che i Repubblicani hanno perso quattro delle ultime sei elezioni presidenziali dal 1992 al 2012.
Ma che succederebbe se a perdere fosse Hillary? In questo caso la mappa politica degli USA avrebbe un aspetto del tutto diverso, con gli Stati democratici limitati al Nordest, alla Costa Occidentale e a qualche macchia di leopardo nel mezzo. Il partito democratico presidenziale, così come quello al Congresso si concentrerebbero nelle grandi città di fede democratica, in alcuni sobborghi simpatizzanti e in qualche sparsa città universitaria.
Insomma, lo choc per i Democratici se perde Hillary sarà molto più grande di quello che proveranno i Repubblicani se a soccombere dovesse essere Trump. Una delle opzioni in mano ai Democratici potrebbe essere quella di moderare le loro politiche, come spinsero a fare i “Nuovi Democratici” negli anni Ottanta e come in effetti fece Bill Clinton negli anni Novanta. Dopotutto, quella si rivelò una prova di successo.
Vent’anni fa, un gran numero di cosiddetti moderati e persino di conservatori votarono alle primarie democratiche. Non così in questi giorni. Il crollo della affluenza alle primarie e nei caucus democratici, da 38 milioni di persone nel 2008 ai 31 milioni del 2016, è stato determinato proprio da un netto declino nella affluenza da parte dei sedicenti moderati.
Lo spostamento di Hillary Clinton dalla triangolazione effettuata dal marito negli anni Novanta ad una accettazione quasi completa della piattaforma di sinistra di Bernie Sanders, avvenuta nel corso di quest’anno, è stata solo una risposta razionale ai cambiamenti avvenuti nell’elettorato delle primarie democratiche.
Una delle lezioni che ci vengono dalle recenti primarie presidenziali è che gli elettori Democratici sono affascinati dalle politiche identitarie, avendo eletto il primo presidente nero e scelto la prima candidata presidente donna della storia americana. Un’altra lezione è che c’è una largo elettorato favorevole ai candidati di sinistra.
Quello a cui gli elettori Democratici non sembrano interessati sono invece i candidati liberal bianchi maschi e “cisessuali” (cisgendered, l’autore sembra alludere ironicamente alla terminologia degli studi di gender, ndt). Il già largamente dimenticato John Edwards si perse per strada a grande velocità nel 2008, e Martin O’Malley, pur avendo credenziali simili a quelle di Bill Clinton e Michael Dukakis, riuscì ad attirare un consenso pari allo zero nel 2016.
Una situazione che lascia i democratici senza alcuna scelta scontata, se la Clinton dovesse perdere le elezioni. I candidati di sinistra più attrattivi e di maggiore visibilità come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, del resto, nel 2020 avranno più di settant’anni. I dirigenti di punta neri e ispanici del partito tendono ad essere schiacciati su spezzoni dell’elettorato, e hanno fatto pochi di quegli appelli alla moderazione che resero Obama un candidato plausibile a livello nazionale nel 2008.
Dunque è possibile che il Partito Democratico americano post-elezioni 2016 finisca per somigliare al Partito Laburista inglese, che a sua volta ha abbandonato le posizioni del “New Labour” di Tony Blair, il leader capace di innescare tre vittorie a valanga nel 1997, nel 2001 e nel 2005. Ora, ai tempi del leader di estrema sinistra Jeremy Corbyn, il partito laburista inglese sembra dirigersi verso una frana elettorale nel 2020.
Si può dire ovviamente che i Democratici potrebbero riprendersi durante una impopolare presidenza Trump, così come potrebbero fare i Repubblicani nel corso di una impopolare presidenza Clinton. Ma è anche possibile che l’attuale elettorato di sinistra renda il partito democratico post-clintoniano ineleggibile al di fuori delle sue ridotte di sinistra.