Trump e Biden, quella convivenza forzata che può far bene all’Italia
21 Gennaio 2025
Ieri alle 18 italiane a Washington si è svolto l’inauguration day e Donald Trump, dopo avere prestato giuramento, ha assunto la carica di Presidente degli Stati Uniti d’America. Si tratta di una cerimonia molto solenne che da sempre accompagna lo svolgimento della democrazia americana. Eppure analizzandolo dall’esterno c’è un dettaglio che non torna.
L’evento si svolge infatti a quasi tre mesi di distanza dallo svolgimento delle elezioni presidenziali che si sono svolte il 5 novembre dell’anno scorso. Ebbene, verrebbe da chiedersi come è possibile che nella democrazia più efficiente del mondo un Presidente eletto a suffragio diretto impieghi poco meno di tre mesi per assumere la carica. Come è possibile che in questo periodo che il presidente neo eletto debba convivere con il Presidente uscente che mantiene la carica e tutti i relativi poteri, che esercita normalmente?
Una prima spiegazione deriva dalla particolare configurazione dell’elezioni presidenziali americane nelle quali il corpo elettorale nella sostanza elegge direttamente il presidente, ma formalmente vota per i grandi elettori i quali poi a loro volta eleggeranno il presidente. Si tratta di un profilo per lo più formale atteso che al momento della candidatura tutti i potenziali grani elettori dovranno dichiarare per quale
candidato presidente voteranno in caso di elezione.
Tale configurazione ha in realtà una logica che risiede nella scelta operata negli USA di tutelare l’autonomia di ciascuno dei 50 stati che compongono l’unione. I grandi elettori sono infatti ripartiti fra gli stati e la ripartizione non è perfettamente proporzionale alla consistenza dell’elettorato di ciascuno di essi. Naturalmente gli stati più popolosi eleggono più grandi elettori ma il sistema prevede che gli stati più piccoli esprimano più grandi elettori di quanti gliene spetterebbero in proporzione alla popolazione.
E’ noto ad esempio che il Wyoming, lo stato meno popoloso, abbia un peso elettorale in proporzione alla popolazione circa quattro volte maggiore della California. La scelta risponde alla logica federalista, propria del sistema americano, e viene difesa sulla base della necessità di garantire un’adeguata rappresentanza anche alle comunità locali più piccole, evitando di concentrare la comunicazione e le attività politiche in fase elettorale solo sulle realtà più popolose, come sarebbe inevitabile se la rappresentanza fosse perfettamente proporzionale alla popolazione residente di ogni stato.
Naturalmente questa particolare configurazione costituisce un fattore di complicazione per il procedimento elettorale. I grandi elettori di ogni stato devo infatti riunirsi ed esprimere ciascuno il proprio voto per il presidente. I voti raccolti a livello federale determinano chi sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti d’America. Ma questa complicazione non è assolutamente sufficiente per giustificare il ritardo con cui avviene la proclamazione.
Il procedimento di espressione e raccolta delle preferenze dei grandi elettori potrebbe agevolmente essere svolto in due/tre giorni. Eppure gli USA, nonostante la straordinaria velocizzazione dei procedimenti politici ed amministrativi che caratterizza l’attuale fase storica, rimangono affezionati a questa configurazione tradizionale del procedimento.
Con la soluzione scelta, infatti, si raggiunge un risultato che sarebbe altrimenti impossibile. Grazie alla durata del procedimento di quasi tre mesi si ottiene il risultato che in questo periodo i due presidenti, quello uscente ma ancora in carica e quello che ha vinto le elezioni ma non è ancora stato nominato, dovranno necessariamente convivere. E convivendo dovranno necessariamente trovare il modo di dialogare e se possibile trovare soluzioni condivise.
Da questo punto di vista il sistema americano delinea un meccanismo che appare funzionale ad affermare una democrazia condivisa fra le parti che si sono confrontate in sede elettorale. Costituisce un fattore di equilibrio e moderazione del sistema. Non è del resto un caso se nessun Presidente americano durante il proprio mandato sia comportato in modo estremista e settario. Anche i personaggi più divisivi, come ad esempio lo stesso Trump al primo mandato o Ronald Reagan, abbiano condotto la propria presidenza in modo equilibrato e, fin dove possibile, moderato.
Da questo punto di vista potremmo trarre una qualche lezione per il nostro Paese. Anche in Italia di fronte ad un bipolarismo estremista e sfascista dovremmo acquisire l’idea che il dialogo costruttivo fra i poli contrapposti del sistema politico rappresenta un valore aggiunto per la democrazia. Che solo dialogando e confrontandosi con chi esprime posizioni ed idee politiche diverse è possibile raggiungere una qualità delle decisioni politiche altrimenti irraggiungibile. Non è il caso di inventarci anche da noi un meccanismo che costringa chi ha vinto le elezioni di convivere per qualche mese con chi aveva vinto le precedenti e quindi aveva espresso il governo?