Trump e il “patto del secolo”: Israele e Palestina di fronte ad una svolta storica

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Trump e il “patto del secolo”: Israele e Palestina di fronte ad una svolta storica

Trump e il “patto del secolo”: Israele e Palestina di fronte ad una svolta storica

31 Gennaio 2020

Gerusalemme resterà la capitale indivisibile di Israele, allo stesso tempo per i palestinesi il futuro Stato potrà stabilire la capitale nei quartieri arabi della città, con gli Stati Uniti che vi apriranno l’ambasciata. A questo si aggiunga che gli israeliani avranno la possibilità di estendere la sovranità ai grandi blocchi di colonie in Cisgiordania (non si parla della valle del Giordano, area che Netanyahu ha promesso in campagna elettorale di annettere) e infine si chiede agli israeliani di congelare la costruzione di insediamenti nei territori arabi per quattro anni, assicurando ai palestinesi un raddoppio della porzione sotto il loro controllo. È quello che il presidente americano Trump ha definito “il piano del secolo”, uno schema che riguarda la nuova geografia politica nei rapporti tra Israele e Palestina, per la pace in Medio Oriente. È lo scopo del presidente Usa, è lo scopo di Netanyahu, che conta di tornare alla guida del governo israeliano, tutt’e due alle prese, chi prima, chi più tardi, con nuove elezioni presidenziali e politiche che li riguardano.

Forse questa trovata da Trump, per i palestinesi potrà sembrare una soluzione indigesta. Ma non esistono molte altre opzioni, e la loro resistenza all’occupazione, in precedenza, non li ha portati da nessuna parte. Anche se c’è già chi chiede una dichiarazione inequivocabile in cui Netanyahu accetti che mentre Israele si prende Gerusalemme Est, oltre il 20 per cento della Cisgiordania con tutti gli insediamenti più la Valle del Giordano, il rimanente 70 per cento diventi uno Stato palestinese indipendente. Uno scenario altamente improbabile, che Netanyahu non potrà proporre. A nostro avviso, è questo, forse, direbbe Leibniz, il migliore dei mondi possibili, anche se si obietta che non ci sia la più remota possibilità che qualsiasi leader palestinese possa accettare i termini di questa, considerata una resa. Secondo alcuni, ciò che viene offerto è un insieme di «cantoni sparpagliati» su cui esercitare un’«autorità sovra-municipale», senza la vitale Valle del Giordano, mentre la moratoria di quattro anni delle colonie israeliane è un trucco, sostengono gli avversari del piano Trump, perché le aree di cui si sono impadronite vanno ben oltre quelle in cui si è già costruito. Un’altra questione è che ai palestinesi sia concessa Gerusalemme Est come capitale, mentre la vera Gerusalemme Est, il quartiere con 300 mila arabi, è già annessa a Israele. Tuttavia, un rifiuto palestinese, diversamente dal piano che dà il via libera all’annessione della Cisgiordania a Israele, darebbe in cambio nulla.

Oppure, ancora più foscamente, ma è quanto, probabilmente, si auspicano le élites cosiddette progressiste, ai palestinesi non resterebbe che avviare una lotta in stile apartheid per la parità di diritti. Insomma, il contrario della pace. Il punto è che potrebbe essere lo stesso aspirante premier israeliano (che il 2 marzo se la vedrà con lo sfidante Gantz), a rifiutare parzialmente l’accordo, mentre invece questo risponde a tutti i bisogni di Israele, sui confini orientali, insediamenti e questione profughi. Trump stesso si aspetta che Israele lo accetti nella sua interezza — che accetti cioè il principio della separazione dai palestinesi e della nascita del loro Stato, con Gerusalemme Est come capitale e con l’80 per cento della Cisgiordania. I palestinesi saranno sì contrari, ma Trump spera che sauditi, egiziani e Stati del Golfo li «costringano» ad accettarlo. Anche l’ex premier israeliano Barak non dispera che succeda, ma teme che la fretta interessata di Netanyahu uccida immediatamente l’appena resuscitata «soluzione dei due Stati». Perché non succeda, è l’appello dell’ex premier, bisogna che «Re Bibi» perda finalmente le elezioni, trasformate in un referendum sul piano di pace e sul futuro di Israele.