
Trump, i social e quel labile confine tra fornitori di “servizi online” e “editori”

04 Giugno 2020
L’ordine esecutivo di Donald Trump, firmato Giovedì 28 Maggio, per ridimensionare le protezioni dei social network, ha fatto molto discutere. Il provvedimento è dovuto a due episodi che hanno visto Trump scontrarsi con Twitter.
Il primo episodio è legato ad un tweet nel quale Trump ha espresso la propria contrarietà al voto postale, affermando che potrebbe essere falsato. La piattaforma ha reagito segnalando il post come “fuorviante”, rilanciandolo con la frase “leggi come stanno le cose sul voto postale” incorporandovi il link di un articolo della CNN con l’intento di fare fact checking sulle affermazioni del presidente.
Il secondo episodio riguarda un post, rilanciato dall’account della Casa Bianca, che Trump ha scritto riguardo ai riots promossi da Black Lives Matter, in seguito all’uccisione del cittadino afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto a Minneapolis. Trump ha definito i manifestanti “criminali” e ha riferito di aver parlato con il governatore del Minnesota, il democratico Tim Walz, dicendogli che “l’esercito è con lui” e che “quando iniziano i saccheggi si inizia anche a sparare”. Twitter ha segnalato il post per incitazione alla violenza e ne ha oscurato il contenuto giustificandosi con finalità di pubblico interesse. L’ordine esecutivo non avrà conseguenze immediate e si basa su un principio molto semplice. La distinzione tra “fornitori di servizi online” e “editori”. I primi sono siti web o applicazioni che consentano agli utenti di creare e condividere contenuti senza intervenire con la censura e che potranno godere della protezione fornita dalla sezione 230 del Communications Decency Act. I secondi sono piattaforme che“usano il loro potere su un mezzo vitale di comunicazione per impegnarsi in azioni ingannevoli o pretestuose che soffocano il dibattito libero e aperto censurando alcuni punti di vista” o limitano agli utenti l’accesso ad alcuni contenuti pubblicati da altri, questi perderanno l’immunità penale e saranno chiamati ad assumersi penalmente le proprie responsabilità come qualsiasi attività editoriale.
La sezione 230 del Communications Decency Act non viene assolutamente abrogata, semplicemente viene rivisto il comma (1) del punto (c) che dice: “Nessun fornitore di servizi internet e nessun utilizzatore di tali servizi può essere ritenuto responsabile quale editore o quale autore di una qualsiasi informazione che sia stata fornita da terzi”. L’ordine esecutivo preserva tutte le garanzie che consentono ai fornitori di intervenire contro contenuti considerati sia dal fornitore stesso sia dall’utente osceni, discutibili o eccessivamente violenti per garantire una libera circolazione della rete anche ai minori.
Entro 60 giorni dalla firma dell’ordine esecutivo, il Segretario al Commercio e il Procuratore Generale presenteranno una petizione alla Federal Communications
Commission (FCC), che distinguerà tra fornitori ed editori basandosi sul presupposto della “buona fede” nella limitazione dell’accesso o della disponibilità ai materiali. Tale presupposto verrà a mancare se: 1) il provvedimento del fornitore sarà ritenuto ingannevole, pretestuoso o incoerente con i termini di servizio. 2) il provvedimento è stato preso dopo l’omissione di un preavviso o una spiegazione motivata.
La Federal Trade Comission (FTC) e il Dipartimento di Giustizia si faranno carico delle denunce circa violazioni alla libertà di espressione sulla rete presentate dagli utenti alla Casa Bianca. L’FTC dovrà occuparsi di vietare pratiche sleali o ingannevoli che incidono sul commercio da parte di fornitori coperti dalla sezione 230.
I reclami saranno condivisi con un gruppo di lavoro istituito dal Procuratore generale che raccoglierà informazioni su: 1) eventuali controlli esercitati sugli utenti in base alle interazioni con gli altri o ai profili seguiti. 2) algoritmi volti a sopprimere contenuti o utenti in base all’allineamento politico. 3) politiche differenziali che consentano comportamenti, altrimenti inammissibili, commessi da conti associati al Partito Comunista Cinese o ad altre istituzioni non democratiche. 4) affidamento a soggetti terzi con propensione alla rivendita di contenuti. 5) atti che impediscano a determinati utenti, con particolari punti di vista, di guadagnare sulla piattaforma.
L’ordine esecutivo di Donald Trump non limita in alcun modo l’esercizio della libertà di pensiero e espressione su Internet ma semplicemente si pone l’obbiettivo di vigilare e regolare sulle attività dei social network per scongiurare abusi nei confronti degli utenti. Non viene colpita l’attività di moderazione volta a scongiurare la diffusione di messaggi osceni o discutibili, ma si interviene sulla discrezionalità con la quale questa viene messa in pratica.
Il confine tra “fornitori di servizi” ed “editori” è diventato sempre più labile, Facebook ha una propria redazione, mentre YouTube ha cominciato a produrre propri video. Queste piattaforme hanno limitato sensibilmente la comunicazione, il dibattito e la divulgazione. Un esempio di questo possono essere le “echo chamber” di Twitter attraverso il quale l’utente è indotto a rinchiudersi all’interno di un gruppo con cui condivide le proprie idee senza lasciare alcun spazio alla deliberazione esterna. Facebook, allo stesso modo, imprigiona i propri utenti in quella che Eli Pariser ha definito “filter bubble” una gabbia invisibile costruita dagli algoritmi intorno all’utente inconsapevole.
Si tratta di un potere enorme che ha trasformato queste piattaforme in autentici mezzi di comunicazione di massa che orientano l’opinione pubblica e intervengono a propria discrezione sul dibattito politico. Un potere che non può e non deve sfuggire al “check and balance”, insieme di meccanismi politici e istituzionali che garantisce l’equilibrio tra i vari poteri all’interno di uno stato per proteggere i cittadini da ogni forma di assolutismo.