Trump, l’Europa e l’interesse nazionale
10 Novembre 2016
Ha vinto Trump…viva Trump. I mass media, gli stessi che tifavano spudoratamente Clinton, ci sommergono in un crescendo di analisi e commenti su chi sia o chi non sia, sul perché e sul per come, su quello che farà o non farà. Ed in questo caso capiamo l’interesse, trattandosi del leader della più grande, qualcuno dice unica, superpotenza mondiale. Un uomo che deterrà per diversi anni nelle sue mani un potere significativo.
Trump, la declinazione 3.0 dell’americano di frontiera. L’espressione più attuale di quell’America profonda che è sempre lì e costituisce il DNA più autentico degli Stati Uniti. Spregiudicato ma pragmatico, curerà i suoi interessi, degli USA e degli americani. Alternerà il blandire alla forza. Non crediamo sarà quel Presidente monotonale, esclusivamente incline ai ragionamenti di pancia che qualcuno ha ventilato.
Questo, a mio modesto parere, sarà il Trump Presidente. Non riteniamo affatto che sarà quel John Wayne un po’ matto e un po’ grullo che certi mass media progressisti hanno tentato di dipingere. Certo, non sarà in tutto e per tutto politicamente corretto, magari sua moglie non avrà l’orticello bio e non tuonerà contro le diseguaglianze per poi accordarsi con i peggiori speculatori finanziari, ma, alla fine, sarà il Presidente di una Nazione che ha ben chiari alcuni concetti di riferimento e, in un modo o nell’altro, direttamente od indirettamente, li persegue.
In primis, gli Stati Uniti ed i loro interessi strategici. Insomma, lasciando ai competenti il campo delle analisi, l’impressione che abbiamo è che una delle grandi differenze, al netto di Trump o della Clinton, fra noi e loro è in questa coscienza di essere che implica una presenza che abbia chiaro nel cuore e nella mente la “mission” di un paese e di un popolo, senza distinzioni di colore di pelle o politico o religiosa o di censo.
Da questo ne consegue che il nostro vivisezionare il neo Presidente Statunitense per cercare di comprendere come eserciterà la sua leadership è la foglia di fico dietro la quale celiamo la nostra sempre più evidente marginalità. Guardare alle elezioni americane come al fatto che può cambiare il nostro domani è, per un verso, un esercizio di realismo, per un altro, una colpevole ammissione di insufficienza. Oggi, meno che mai, non saranno né Trump né la Clinton a colmare i nostri deficit, perché, alla fine, tutto questo discutere impatta drammaticamente con la nostra cronica incapacità di italiani ed europei già soltanto a parlare di interesse nazionale o, ancor meno, europeo.
Perché mentre gli USA sanno, più o meno, dove vogliono andare, anche a nostro danno, noi ancora dobbiamo capire chi siamo e quale strada intraprendere. Italiani, europei, padani, borbonici, e mentre discettiamo di identità astratte, come ci insegna la più recente realtà, in virtù di questa nostra inconsistenza, degradiamo ad attori non protagonisti del nostro destino.
Da questo bisognerebbe cercare di ripartire. Senza fare voli pindarici. Con quella feroce determinazione e quel pragmatismo che sono necessari quando è in discussione il proprio futuro. Nel mondo vero non c’è spazio per chi non sa sostanziare concretamente la propria identità e gli spazi che si vogliono occupare. Non si tracciano rotte con bussole virtuali che al posto dei punti cardinali hanno solo belle parole. Non esistono diritti se non difesi con le unghie e con i denti. Il resto è retorica o, nel migliore dei casi, dotta discussione. Tutto ciò che non serve per affrontare le ruvidità dei tempi e della vita. Gli americani questo, siano essi Trump o la Clinton, lo hanno sempre avuto ben chiaro.