Trump licenzia il direttore dell’Fbi e i clintoniani rosicano
10 Maggio 2017
Il presidente Trump ha licenziato il direttore dell’Fbi Comey. “You’re fired”, come in una puntata di The Apprentice, il talent di successo condotto dal Don nella sua vita precedente. Trump si è mosso con piedi di piombo, d’accordo con il dicastero della giustizia e le commissioni competenti: solo in un’altra occasione, infatti, erano i tempi di Bill Clinton, il numero uno dell’Fbi era stato costretto a fare le valigie anzitempo, prima della naturale fine dell’incarico.
Per i giornaloni il tema è sempre lo stesso, le indagini sugli hacker russi che secondo Obama avrebbero “alterato” le elezioni presidenziali facendo vincere Trump ma il Don nella letterina di licenziamento ha riconosciuto a Comey di averlo avvertito “in almeno due o tre occasioni del fatto che non ero sotto indagine”. Non solo; qualche mese fa in una audizione al Congresso Comey aveva spiegato che i fantomatici hacker russi – che nessuno può dire con chiarezza siano mai esistiti – non furono la causa della sconfitta di Hillary. Comey in quella occasione aveva ricordato che a mandare a casa la Clinton furono gli operai e la classe media infuriate del Midwest, negli stati democratici ribellatisi al globalismo progressista.
Anche Breitbart, il sito di enews considerato vicino al presidente Trump e diretto in passato dal consigliere anziano del presidente, Bannon, per una volta va giù di fioretto invece che usare la proverbiale sciabola quando racconta del licenziamento di Comey. Ma perché il direttore dell’Fbi è stato licenziato? Comey avrebbe esagerato nelle accuse rivolte a Huma Abedin, braccio destro della Clinton, accusata di aver riversato centinaia di email riservate della candidata democratica nel pc del marito, quel Weiner che si scoprì contestualmente fare sesso online con le ragazzine.
Qualche email ‘trafugata’ ci fu ma non abbastanza per dar credito alle indagini di Comey e adesso i Democratici già strepitano e se la prendono per il caos creato all’epoca delle elezioni dalle indagini dell’Fbi sul Clintongate, aperte e richiuse non una ma due volte prima del voto alle presidenziali – una mazzata per le ambizioni di gloria di Hillary. Ma anche ai democratici americani conviene muoversi con cautela visto che restano in piedi le precedenti accuse di Comey alla Clinton, “un comportamento inaccurato”, secondo il direttore, quello tenuto da Hillary quando era segretario di stato di Obama, usando in modo troppo disinvolto la sua posta elettronica personale per comunicare segreti di stato.
Tanto che all’epoca delle elezioni, quando finalmente si iniziò a capire che la candidatura della Clinton era compromessa, qualcuno suggerì che le incendiarie inchieste dell’Fbi fossero un modo con cui la Casa Bianca obamiana prendeva elegantemente le distanze dalla discussa leader democratica, la sua fondazione milionaria e la protervia che aveva dimostrato in campagna elettorale sentendosi sicura di vincere e rimediando solo un patatrac. Comey, che ha definito l’agente tipo dell’Fbi un patriota, indipendente dalle logiche di partito e autonomo dalla politica, in realtà, fin da prima che assumesse il suo incarico – a nominarlo fu Obama – ha sempre mostrato doti non indifferenti di galleggiamento, riuscendo a cavarsela, vaso di coccio tra vasi di ferro.
Abile e capace di muoversi fra i tavoli dei potenti, Comey non era in ogni caso l’uomo adatto a Trump, che adesso chiede “una nuova leadership forte per riportare la fiducia” nell’Fbi. E intanto i Democratici rosicano, ripensando a quanto gli sono costate le email di Lady Hillary.