
Trump, secondo impeachment al rush finale. Ecco come funziona e perché non andrà lontano.

10 Febbraio 2021
di Vito de Luca
Si è aperta martedì la fase finale della procedura per il secondo impeachment in Senato nei confronti di Donald Trump. Sei senatori repubblicani si sono aggiunti a 50 senatori democratici nel dare il via libera alla costituzionalità della messa in stato di accusa per l’ex presidente Usa.
Dunque, 56 senatori contro Trump. Ma se è questa la cartina di tornasole a Washington, il tycoon non corre alcun rischio e il processo si concluderà come per il primo tentativo. Con un nulla di fatto, perché nel pallottoliere delle istituzioni americane è lontano il numero “magico” di 67 senatori, il minimo necessario, i due terzi del Senato, per condannare il predecessore di Biden, che di questo dibattito ha annunciato di non voler sapere.
Si tratta di una situazione senza precedenti, come prima mai accaduto, e fuori da ogni fondamento costituzionale americano (anche se 140 costituzionalisti negli Usa si sono espressi a favore), poiché mai nessun ex presidente è finito alla sbarra del Congresso. L’iniziativa del partito democratico, del tutto strumentale, e intrapresa al solo scopo di tentare di sbarrare la strada ad una possibile ricandidatura del 45° presidente Usa nel 2024 alla Casa Bianca, naufragherà infatti inesorabilmente.
La Camera dei Rappresentanti il 13 gennaio ha messo sotto accusa Trump una seconda volta – anche questo un fatto inedito per la storia politica Usa – per il suo ruolo nel presunto incitamento alla rivolta del Campidoglio del 6 gennaio scorso, poco più di un anno dopo che lo aveva messo sotto accusa per la prima volta per aver spinto l’Ucraina ad annunciare indagini che lo avrebbero aiutato politicamente. L’ultima votazione è stata di 232 a 197, con tutti i democratici a favore ai quali si sono aggiunti 10 repubblicani. In più, tanto per delineare lo scenario che si è presentato martedì, dopo che la richiesta di impeachment è stata inviata al Senato, la Camera alta nel voto procedurale sulla costituzionalità per potere instaurare un processo per un presidente che ha lasciato l’incarico, ha registrato solo un repubblicano in più, Bill Cassidy, della Lousiana, dei cinque del Gop che il mese scorso si erano aggiunti ai dem su un voto relativo all’archiviazione del caso (tra questi, l’arcinemico di Trump, Mitt Romney, dello Utah, sconfitto da Obama nel 2012).
Un processo, ora aperto, il cui inizio però è stato ritardato da un accordo tra il leader della maggioranza al Senato, Chuck Schumer, dello Stato di New York, e il leader della minoranza, Mitch McConnell, del Kentucky, per concedere a entrambe le parti più tempo per studiare le carte. Anche se Trump, così ha dischiarato ieri la Fox, dopo aver visto all’opera i suoi due avvocati, diversi dal gruppo di legali che si è dimesso due settimane prima dell’inizio del processo, è sembrato insoddisfatto del loro operato.
Ma come si svolgerà la messa in stato di accusa? La presidente della Camera, Nancy Pelosi, senatrice della California, per questo ha nominato un team di responsabili dell’impeachment della Camera, mentre non è chiaro se i democratici chiameranno dei testimoni. Quel che è certo è che hanno invitato Trump a testimoniare sotto giuramento. Una richiesta che Trump ha respinto, mentre è tutto intento, dalla sua residenza in Florida, a programmare il suo futuro politico. Forse una tv tutta sua e chissà che non le affianchi anche un partito personale, qualora decidesse di uscire dal partito repubblicano. Uno dei due avvocati di Trump, David Schoen, tra l’altro ha messo in guardia i democratici dal chiamare testimoni e ha minacciato di chiamare in causa i senatori democratici «a causa dei terribili pregiudizi e pregiudizi che hanno mostrato», ha detto al presentatore di Fox News, Sean Hannity.
Il Senato, dunque, ha votato il primo giorno su una risoluzione che disciplina la struttura del processo. E ha previsto, inoltre, che si includa il tempo per le argomentazioni di apertura dell’accusa, la difesa di Trump e poi una fase di domande e risposte con i senatori, seguita da discussioni di chiusura. Dopodiché, il Senato si esprimerà. Ma non vi sarà, come secondo la Costituzione, il giudice capo della Corte Suprema a presiedere il processo, poiché dovrebbe trattarsi di un presidente in carica. E Trump non lo è.
Sarà dunque il presidente del Senato pro tempore, Patrick Leahy, il membro più longevo del partito di maggioranza, a farlo. Il caso è stato già presentato da una squadra di nove dirigenti della Camera, tutti democratici, guidati dal rappresentante Jamie Raskin del Maryland. Il resto del team è composto dai rappresentanti Diana DeGette del Colorado, David Cicilline del Rhode Island, Joaquin Castro del Texas, Eric Swalwell della California, Ted Lieu della California, Stacey Plaskett delle Isole Vergini americane, Joe Neguse del Colorado e Madeleine Dean della Pennsylvania.
La squadra di difesa di Trump è guidata da Schoen, un avvocato dell’Alabama, e da Bruce Castor, un ex procuratore distrettuale della contea di Montgomery, in Pennsylvania (i due non sono andati molto oltre nel tentare di convincere i “giurati” che il discorso di Trump del 6 gennaio non è stato un incentivo alla rivolta. Trump, per usare un eufemismo, ha storto il naso sulla debolezza dei suoi legali). E da oggi – si è cominciato alle 12 di Washington – l’accusa e la difesa avranno 16 ore ciascuna per presentare i loro casi ai senatori, che fungono da giuria.
La tradizione vuole che ai senatori sia concesso almeno un giorno per porre domande. Il processo dovrebbe terminare con le discussioni conclusive e con un voto finale sull’opportunità di condannare Trump. Se il processo non si concluderà entro sabato, il Senato terrà una sessione domenicale per proseguirlo, secondo le regole del processo. E forse si arriverà all’inizio della settimana prossima per il verdetto.
Un teatro politico-giudiziario messo su dai democratici, e con Biden riluttante, in un quadro in cui la Costituzione lascia ampio spazio alla Camera dei Rappresentanti per gestire il processo di impeachment. E se è vero che non ci sono limiti al numero di volte in cui qualcuno può essere messo sotto accusa, è altrettanto vero che Trump è la prima persona in assoluto ad essere messa sotto accusa più di una volta, con eventuali conseguenze tutte nulle.
Poiché il presidente Biden si è già insediato, gli effetti pratici del secondo impeachment da parte della Camera sono per lo più simbolici e il Senato, se dovesse condannare Trump, non potrà rimuoverlo da un ufficio che non ricopre. Rimane aperta la questione sul fatto se il Senato potrebbe immediatamente tenere un voto di “follow-up”, soggetto solo a una maggioranza semplice, per vietare a Trump di ricandidarsi. Una sorta di pena accessoria, tutta da valutare sulla sua applicabilità, che in più non influirebbe sui suoi benefici post-presidenziali, che includono una pensione e la protezione dei servizi segreti.
Anche la storia non aiuta, in quanto non ci sono precedenti per un presidente che è stato messo sotto accusa o condannato dopo aver lasciato l’incarico. Il presidente Richard Nixon, ad esempio, si dimise per non essere messo sotto accusa. E sia la Camera, sia il Senato hanno proceduto una volta con l’impeachment e il processo per un funzionario di gabinetto che si dimise, il segretario alla guerra del presidente Ulysses S. Grant, William Belknap. Anche Belknap consegnò le sue dimissioni alla Casa Bianca pochi minuti prima di essere messo sotto accusa per corruzione il 2 marzo 1876. In quel caso Belknap si presentò al processo e, sebbene la maggioranza dei senatori votò per la condanna, fu assolto perché non si raggiunse una maggioranza dei due terzi.