Tunisia, c’è anche la minaccia salafita nella “Rivoluzione dei Gelsomini”
24 Gennaio 2011
di Bernard S.K.
Nel weekend sono continuate le proteste in Tunisia, con un grande sit-in nella piazza del parlamento per contestare il nuovo governo – accusato di essere troppo legato a quello del fuggitivo Ben Alì. Ma forse mancano ancora dei tasselli per comprendere cos’è accaduto nelle settimane scorse a Tunisi. Vediamo quali.
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Aveva studiato, si era laureato, ma continuava a vendere frutta e verdura per le strade di Sidi Bouzid. Aveva 26 anni Mohamed Bou’azizi, originario della regione centrale di Sidi Bouzid, quando, il 17 dicembre, si è dato fuoco per protestare contro la sua condizione sociale, simile a quella di altri suoi coetanei. Non un atto di “suicidio” ma, come verrà approfondito, un gesto di “immolazione”, di martirio. Sua madre ha dichiarato al quotidiano algerino El-Khabar: “Il sangue di mio figlio ha liberato il suo paese”. L’episodio è stata la miccia che ha fatto detonare il già ben confezionato ordigno esplosivo sociale tunisino. A Sidi Bouzid è stata intitolata una via al giovane “Gavrilo Princip” tunisino. Un “martire per la libertà” dunque e non un “suicida”.
Il giovane Bou’azizi, come lo ha descritto sua madre ai quotidiani maghrebini, era un ragazzo “timorato di Allah” che pregava cinque volte al giorno. Un pio fedele musulmano. Come tale, è difficile pensare che abbia compiuto il suo gesto estremo vivendolo come un “suicidio”, atto condannato dall’Islam. Egli ha utilizzato il suo corpo come arma di riscatto sociale contro un tiranno. In questo senso, il suo gesto passerà alla storia non come un “suicidio” ma come un atto di “martirio” e di jihad intesa come lotta individuale contro l’oppressore. Nella stampa araba, Bou’azizi viene descritto come il “martire” e non come il “suicida”. Da qui le azioni di emulazione negli altri paesi arabi.
Un ulteriore elemento che conferma il carattere “islamista” del gesto di Bou’azizi è la regione di cui era originario. Già all’inizio del 2007, si registrarono violenti scontri a Sidi Bouzid tra l’Esercito tunisino e un gruppo di giovani salafiti-jihadisti locali guidati spiritualmente da uno sceicco noto come “sheikh Al-Khatib al-Idrissi”. In quell’occasione, lo sheykh tunisino Rashed al-Ghanushi, leader del movimento islamista tunisino “Ennahda” (La Rinascita), ebbe a dire: “Qui c’è lo mano di Al-Qaeda, non si tratta di criminali comuni”. La regione di Sidi Bouzid, oltre ad essere un’area in cui si è sviluppata – attorno alla figura dello sceicco – la corrente salafita tunisina, ha attirato anche l’attenzione delle autorità italiane, e in particolar modo delle vigili forze di polizia nel nord-est, quando furono indagati ed espulsi nel marzo 2009 due soggetti maghrebini, fra cui un tunisino, Sghaier Miri, originario di Sidi Bouzid, seguace ed export manager della corrente di Al-Idrissi in Italia.
In quest’ottica, la preoccupazione maggiore per i vicini paesi europei è la diffusione dei movimenti islamisti nel Maghreb arabo, in questo caso in Tunisia, e la potenziale fuoriuscita di soggetti radicalizzati e quindi radicalizzanti. Citando un articolo di “Le Monde”, il quotidiano panarabo “Al-Quds al-Arabi” del 12 gennaio scorso, sottolineava il silenzio di alcuni Paesi europei di fronte alla rivoluzione tunisina e ai disordini in Algeria, in particolar modo di Spagna, Francia e Italia. È nota, e comprensibile, l’esistenza di una stretta collaborazione fra le autorità delle due sponde del Mediterraneo in materia di sicurezza, e profondi mutamenti come quello tunisino potrebbero compromettere tale collaborazione, soprattutto con l’incognita dell’ingresso nel governo di elementi di corrente para-salafita come il movimento, finora interdetto, di “Ennahda”.
Per quanto riguarda i paesi del Maghreb arabo, la preoccupazione è alta. Il Regno del Marocco ha già espresso solidarietà al popolo tunisino. L’Algeria, che nelle ultime settimane ha vissuto situazioni analoghe a quelle tunisine, attende in silenzio, adottando urgenti provvedimenti a favore della popolazione. Per quanto riguarda la Libia, a seguito della fuga di Ben Ali, il leader Gheddafi si era detto “addolorato” per la caduta dell’ex presidente tunisino. In un messaggio rivolto al popolo tunisino, il leader libico aveva dichiarato che “Ben Ali continua a essere il legittimo presidente della Tunisia”. Indubbiamente, la “rivoluzione del gelsomino”, come è stata definita quella tunisina, preoccupa la Libia. Gheddafi non ha esitato a esprimere il timore che la rivoluzione possa intaccare la stabilità del suo paese. Secondo fonti del Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia, il regime libico avrebbe agevolato l’ingresso di ingenti quantità di armi in Tunisia con lo scopo di alimentare i disordini e destabilizzare il paese. Lo stesso Fronte ha rivelato che unità speciali libiche sarebbero già state inviate in Tunisia per proteggere alcuni famigliari di Ben Ali.
Paesi “lontani” come l’Egitto, la Giordania, lo Yemen ma anche l’Albania, temono un contagio del clima rivoluzionario tunisino, la “formula tunisina del cambiamento”, come si legge nei social network. Casi di “immolazione” si sono registrati in Algeria, Mauritania, Egitto e Giordania. La comunità internazionale sta monitorando con attenzione gli ultimi sviluppi, con il timore che alcuni vuoti possano essere colmati dai movimenti islamisti. E qualora Al-Qaeda dovesse strumentalizzare il malcontento sociale, come ha già fatto, non si può escludere il rischio di un passaggio da azioni di “immolazione” ad azioni di “martirio” contro soggetti terzi, azioni che l’Occidente erroneamente definisce “kamikaze”.