Turchia e Stati Uniti uniti contro il Pkk
06 Novembre 2007
Lunedì 5 novembre, al termine del vertice con il premier
turco Erdogan, il presidente Bush ha promesso di aiutare
curdi del Pkk nel nord dell’Iraq, e di aumentare la cooperazione con Ankara a
livello politico, militare e soprattutto d’intelligence. Inoltre ha
esplicitamente affermato, secondo quanto riporta
della Turchia, un nemico dell’Iraq libero, e un nemico degli Stati Uniti”.
Erdogan ha risposto che è molto importante avere un approccio congiunto
nell’affrontare i guerriglieri curdi, ed ha messo in guardia sul fatto che la
stabilità dell’intero Medio Oriente potrebbe essere messa a repentaglio da
quanto succede nel nord dell’Iraq.
Il giorno prima il Pkk aveva rilasciato gli otto militari
turchi catturati a metà ottobre, senza porre condizioni. Secondo il Financial
Times del 5 novembre “tale gesto è un segno che la crisi politico-militare
dovuta agli attacchi dei separatisti curdi del Pkk in Turchia si è attenuata
(…), e migliora l’atmosfera dei colloqui tra Erdogan e Bush dopo mesi di
peggioramento delle relazioni tra Stati Uniti e Turchia”. Nell’impegnativa
partita a poker in corso tra i cinque giocatori – Stati Uniti, Turchia, governo
nazionale iracheno, governo regionale curdo e Pkk – la tensione è salita e
scesa più volte negli ultimi mesi. In particolare il governo di Erdogan ha
rilanciato fortemente puntando la fiche di un intervento militare nel Kurdistan
iracheno, ammassando 100.000 soldati al confine e incassando l’autorizzazione
parlamentare all’incursione, per forzare Stati Uniti, iracheni e curdi ad agire
contro i guerriglieri del Pkk. Guerriglieri che, grazie al retroterra logistico
di cui godono nel nord dell’Iraq, sono stati in grado di aumentare il numero e
la gravità degli attacchi terroristici compiuti in territorio turco.
Venerdì 2 il segretario di Stato americano Condoleezza Rice si
era recata ad Ankara per una serie di incontri con le autorità civili e
militari turche, prima della seconda Conferenza Internazionale sull’Iraq
svoltasi ad Istanbul – cui hanno partecipato il Segretario generale dell’Onu, i
rappresentanti dei paesi confinanti dell’Iraq e dei membri del G8 – i cui pur
importanti lavori sono stati purtroppo messi in ombra dalla crisi
turco-irachena.
ha cercato di convincere i turchi a non invadere l’Iraq ed in cambio, secondo
quanto riporta l’International Herald Tribune del 4 novembre, ha affermato
pubblicamente che “tutti noi dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi”, promettendo
di fare pressioni sul governo centrale di Baghdad e su quello regionale curdo
affinché agiscano concretamente contro il PKK. Il segretario di Stato tuttavia,
riferendosi implicitamente all’ipotesi di un intervento militare turco in Iraq,
ha precisato che “Stati Uniti e Turchia devono cercare una strategia efficace,
non solo una strategia che colpisca in qualche modo e non afferenti il
problema”. L’ironia della sorte ha voluto che ad invitare alla prudenza
nell’affrontare il terrorismo sia proprio l’amministrazione Bush che sta combattendo
due guerre per colpire i terroristi fuori dai propri confini nazionali.
è disposta a ricevere lezioni su questo tema né dall’America né dall’Europa, e
come riporta l’IHT alla fine dell’incontro il ministro degli Esteri turco
Babacan ha chiaramente detto alla sua omologa americana che “noi ci aspettiamo
davvero molto dagli Stati Uniti. Noi vogliamo azioni. Questo è il momento in
cui le parole finiscono e le azioni devono iniziare”.
Per venire incontro all’alleato americano, assolutamente
contrario ad un’azione militare che destabilizzi l’unica regione relativamente
tranquilla dell’Iraq, lo stesso Babacan aveva precedentemente smorzato i toni
precisando che
non sta preparando una “invasione” del Kurdistan iracheno, ma bensì un “attacco
oltre confine che colpisca le basi dei terroristi”. Secondo l’IHT del 2
Novembre, Babacan ha anche aggiunto che le truppe turche “se agiranno oltre confine cercheranno di evitare
di scontrarsi con l’auto-governo curdo dell’Iraq del nord”. Questo, tuttavia, sarebbe
quasi impossibile, considerato che i curdi iracheni “hanno affermato che
difenderanno il loro territorio contro ogni incursione”, e accusano
ultimo la distruzione di ogni prospettiva di autonomia per il Kurdistan. Il
governo turco in fin dei conti non vorrebbe intraprendere una escalation
militare, ma è sotto pressione da parte dell’opinione pubblica per fare
qualcosa contro il terrorismo crescente. Non può perciò accantonare definitivamente
l’opzione militare senza prima aver ottenuto dai suoi interlocutori risultati
tangibili contro il Pkk: Ankara non sta bluffando, ed è disposta ad andare a
vedere che carte ha in mano il Pkk con i 100.000 uomini già schierati.
A scombinare le carte potrebbe essere un altro attore
regionale che punta a sedersi anche a questo tavolo da gioco: l’Iran. Come nota
Le Monde del 5 Novembre, “invitato dal premier iracheno Al-Maliki a
disinnescare la crisi, il vicino di Turchia e Iraq si confronta anch’esso con
gli attacchi del Pkk nelle sue province curde”. Il governo di Teheran ha già
stretto i controlli alle frontiere con il Kurdistan iracheno, ha bombardato più
volte il monte Qandil, feudo dei ribelli curdi iraniani, ed il vice ministro
degli Esteri di Teheran ha dichiarato che “Turchia e Iran dovranno dialogare sulla
questione”. Al momento, però, secondo quanto riferisce Le Monde, “l’Iran
contrariamente alla Siria è contrario a un’operazione di ampia portata nel kurdistan
iracheno. Kurdi e sciiti hanno interessi comuni in Iraq, e Teheran crede che un
intervento turco rafforzerebbe i sunniti”.
La partita si fa dunque più complessa, le strategie dei
giocatori sono diverse e in parte ancora nascoste, e le alleanze non scontate.
Bush ha giocato le sue carte, ma bisogna ancora vedere se il suo punto è
abbastanza buono per vincere la posta in palio.