Turchia: i veri laici sono Erdogan e Gul
05 Ottobre 2007
Diciamolo con
franchezza una volta per tutte, il governo filoislamico moderato di Erdogan non
è una minaccia per la Turchia. Al contrario, è con ogni probabilità il governo
che porterà il paese all’ammodernamento economico, civile ed istituzionale. È
il governo che svecchierà la carta costituzionale turca, che cercherà di
ridurre l’ingerenza politica dell’apparato militare, che cercherà di
abbandonare la lettura del kemalismo come dottrina di Stato. È il governo che
s’impegnerà a riconoscere le varie memorie, armeni compresi, accettando una
realtà multiculturale e multilinguistica, e mettendo fine ad un clima di
tensione e violenza. È il governo musulmano moderato che sostituirà alla laicità
nazionalista e kemalista dei partiti dell’opposizione e dell’esercito una
laicità all’occidentale, ovvero garantista e liberale. Quella laicità in cui
gli stessi turchi credono con convinzione come hanno dimostrato alle politiche
dello scorso luglio.
Per il governo
islamico moderato di Erdogan e per il neo-presidente della Repubblica Gul,
braccio destro del Premier, la visita del ministro Bonino a Istanbul e Ankara
della scorsa settimana si è rivelata l’occasione per dimostrare ai paesi della
Ue, nonché alla commissione europea indipendente sulla Turchia di cui la Bonino
fa parte, quanto oggi la contrapposizione tra filoislamici e laici, tra i
“cattivi” islamizzatori dell’AKP e i “buoni” difensori
della laicità dello Stato, non abbia alcun senso. Alimentata dalla copertura
mediatica e da una logica della semplificazione della notizia che tutto
spettacolarizza, la dicotomia islamici-laici è tutt’ora il cavallo di battaglia
di un’opposizione che, a corto di argomentazioni, ha risvegliato il
nazionalismo kemalista e quello di estrema destra gridando alla minaccia
islamizzante personificata dall’AKP.
Il ministro Bonino
ha ricevuto dal neo Presidente Gul rassicurazioni sui progressi relativi ad un
nuovo testo costituzionale che affronterà i diritti delle minoranze e quel
famigerato articolo 301 del codice penale che punisce il vilipendio
dell’identità turca e impedisce, di fatto, la libertà di opinione e di
espressione riguardo il genocidio degli armeni e la discriminazione dei curdi. Il
ministro italiano ha anche appreso dal Presidente che presto incontrerà il
Nobel turco per la letteratura Orhan Pamuk. Per aver parlato degli armeni, lo
scrittore era stato incriminato dalla giustizia turca e minacciato dai gruppi
ultra-nazionalisti di estrema destra. A questo gesto di distensione politica,
si deve aggiungere anche il viaggio nel sud-est curdo che il Presidente Gul ha
affrontato nei giorni scorsi. Ecco, tradotto in fatti concreti, lo spirito laico
del politici musulmani che i turchi hanno messo alla guida del Paese. È così
strano ammettere che dei credenti musulmani possano essere dei politici laici,
pragmatici e convinti sostenitori della democrazia?
Se alla Presidenza
della Repubblica, al posto di Gul, ci fosse stato ancora il nazionalista e
kemalista Sezer, così vicino a quelle più alte cariche dell’Esercito che nelle
sale del Consiglio di Sicurezza Nazionale lo affiancavano nella difesa della
laicità dello Stato, o se ci fosse stato un esponente del CHp, il maggior
partito dell’opposizione fondato dal padre della patria Kemal Ataturk e
portatore della sua dottrina di Stato, magari vittorioso alla elezioni di
luglio con l’appoggio degli ultra-nazionalisti del MHp, c’è da scommettere che
nessuno avrebbe ricevuto il nobel Orhan Pamuk o visitato il sud-est del Paese a
maggioranza curda.
Eppure i partiti
dell’opposizione, CHp e MHp in primis, da sempre parlano di difesa della
laicità dello Stato. Un’opposizione e un Esercito tradizionalmente laici che
accusano d’islamizzazione una maggioranza di governo islamica moderata che nei
fatti sta dimostrando invece la propria laicità: dove sta l’equivoco?
La questione è di
carattere semantico. Quello che i giornali, i partiti dell’opposizione e le
alte cariche militari del Consiglio di Sicurezza Nazionale si dimenticano di
spiegare, impegnati come sono tutti quanti nel dare dell’islamizzatore a
Erdogan e compagni, è il vero significato che l’aggettivo “laico”
assume nella loro tradizione kemalista e nazionalista, tradizione che risale ai
primi decenni del XX secolo, alla guerra d’indipendenza condotta da Kemal
Ataturk e, ancor prima, ai progetti di turchizzazione dell’Anatolia e di
panturanismo dei Giovani Turchi.
Per la tradizione
storico-politica dell’opposizione e dell’Esercito, lo Stato laico non è
sinonimo di separazione tra potere politico e religioso ma di esclusione della
religione dall’ambito pubblico e di assoggettamento del culto alle direttive
dello Stato. Nella dottrina politica lasciata dal Padre della Patria, lo
Stato-Nazione laico coincideva con un regime del partito unico, quello
repubblicano fondato da Ataturk stesso (l’attuale CHp), il cui scopo era la
formazione di un’identità turca ex novo e la sua difesa dalle minoranze armene,
curde, greche, alevite.
Il processo di
laicizzazione dello Stato coincideva con l’esercizio di un controllo diretto
sulla presenza della religione musulmana, considerata religione di Stato ed
elemento fondante dell’identità turca. Quella ereditata dal kemalismo, è quindi
una laicità mescolata a un forte sentimento nazionalista che non lascia spazio
alle minoranze linguistiche e religiose, che non colloca la religione fuori
dallo Stato ma dentro lo Stato perchè da esso regolata. Istituzione voluta da
Ataturk tra le sue riforme dopo la proclamazione della Repubblica turca, la
Diyanet, ovvero la Presidenza per gli Affari Religiosi, è dal 1924 che
amministra il culto islamico e gestisce la presenza della religione nella sfera
pubblica. Il celebre divieto d’indossare il velo negli uffici pubblici e nelle
università, oggi al vaglio del Parlamento per una sua modifica in senso
liberale e garantista, è stato imposto a suo tempo proprio dalla Diyanet.
In sintesi, la
laicità a cui fa riferimento per tradizione politica l’opposizione del CHp e
del Mhp è strettamente invischiata con un nazionalismo intransigente, non certo
filoeuropeo, e con un modello di Stato che regola e organizza gli elementi
considerati fondanti l’identità nazionale turca, tra cui appunto la religione
islamica. A questo paradigma di laicità nazionalista, che non a caso negli ultimi
mesi ha risvegliato i gruppi ultra-nazionalisti di destra, si contrappone
l’atteggiamento laico dell’AKP e dei suoi uomini. Uno spirito laico di matrice
democratica e liberale, più vicino alla tradizione laica Occidentale,
garantista verso quelle minoranze che alle ultime elezioni non hanno esitato a
votare per un governo musulmano laico.
Non ha più senso
raccontare la realtà politica turca in termini di scontro tra filoislamici e
laici. In discussione non è il ruolo della religione rispetto a istituzioni e
organi di governo. Oggi lo scontro
politico verte su due concezioni differenti di laicità. Quella
dell’opposizione, legata alla tradizione kemalista e dunque intransigente verso
le minoranze, illiberale e poco garantista verso la libertà di religione degli
stessi turchi, e quella della maggioranza islamica moderata, più democratica e
possibile collante e punto d’incontro con l’Europa e con l’Occidente.
%0A
Le due differenti
laicità si traducono di conseguenza in una maggioranza riformista e progressista,
intenzionata a portare la Turchia in Europa, e in un’opposizione, insieme allo
Stato Maggiore, conservatrice, nazionalista e reazionaria che non vede di buon
occhio l’ingresso nella Ue.
Dopo l’elezione di
Gul a Presidente della Repubblica, tale scontro di laicità ha raggiunto, oltre
che il Parlamento, anche il Consiglio di Sicurezza Nazionale nel quale, fino
alla presidenza di Sezer, la laicità nazionalista e kemalista era l’unico
valore ispiratore. Ora, con Gul a presiedere il Consiglio di Sicurezza Nazionale
in veste di Capo di Stato (oltre a nominare il Capo di Stato Maggiore),
generali ed ufficiali non avranno vita facile.
Lascio spazio, in
conclusione, alle parole di Hrant Dink, il direttore del settimanale bilingue
armeno-turco “Agos”, ucciso da un giovane ultra-nazionalista lo scorso gennaio
nel centro di Istanbul, davanti alla sua redazione. Si tratta di uno stralcio
preso dall’ultima intervista rilasciata dal giornalista a fine 2006 alla
rivista italiana “Tempi”. Alla domanda dell’intervistatore sul presunto
processo d’islamizzazione in corso nel Paese ad opera del governo Erdogan,
Dink, che non può essere certamente tacciato di partigianeria nei confronti
dell’AKP, ha risposto:
“È vero il
contrario: l’Islam in Turchia è in fase calante e questo coincide con un
governo gestito da credenti. Il processo di democratizzazione che il paese sta
vivendo è merito del governo islamico, e questa è una chance per la Turchia e
per il mondo. Il vero pericolo non è l’islam, ma il nazionalismo. Il nazionalismo
è sotto il controllo diretto dello Stato, che lo usa a suo piacimento. Adesso
lo sta alimentando per indebolire il governo islamico in vista delle elezioni
del 2007. Secondo i più recenti sondaggi la percentuale di turchi favorevoli
all’adesione alla Ue è in diminuzione. Perché, secondo lei? È una delle
conseguenze del ritorno di fiamma del nazionalismo, che ha per obiettivo la
sconfitta di Erdogan alle elezioni”.