Turchia nel caos, golpe (fallito) contro il presidente Erdogan
16 Luglio 2016
Tutto in una notte: in Turchia i militari provano a rovesciare il presidente Erdogan. A capo del “coup”, ufficiali di alto grado della aviazione e dell’esercito turco (sarebbero circa 1500 i militari arrestati fino a questo momento). 190 morti e oltre mille feriti il bilancio provvisorio degli scontri che si sono susseguiti per tutta la notte nelle principali città del Paese. Erdogan prima fugge in aereo in cerca di asilo politico: in Germania, dove trova la porta chiusa di Angela Merkel. Poi in Gran Bretagna, mentre altri lo danno già diretto verso il Qatar, via Teheran. Ma a sorpresa, verso le 2:30 ora italiana, arriva la notizia che “il Sultano” sta atterrando a Istanbul. Attorno all’aeroporto, in molti manifestano in sua difesa contro i militari.
Erdogan parla e dice che il golpe è sventato: “Un attentato, un tentativo di rovesciare lo Stato, ovviamente queste persone riceveranno la risposta che prevede la nostra Costituzione, il nostro sistema giudiziario”. Rivendica “il potere che viene della nazione”, si appella al suo partito, alle istituzioni del Paese, ai generali rimasti fedeli. Ma sembra preoccupato, mentre dall’aeroporto continuano a rimbalzare notizie su delle esplosioni nello scalo, e non è chiaro quale sia la situazione complessiva in Turchia, ad Ankara, la capitale, dove i carri armati dei golpisti hanno sparato sul parlamento.
Non è la prima volta che le forze armate organizzano un “coup” nella storia della Turchia (la quarta); si è sempre guardato ad esse come ai depositari della laicità dello stato, dei valori della repubblica “kemalista”, quella fondata dal padre della patria, Ataturk. Parliamo del secondo esercito più grande tra i Paesi della NATO. Nel 2007, i militari lanciarono un duro avvertimento sul web all’allora premier Erdogan, venne definito un “e-golpe”. Negli ultimi decenni, le prerogative e il ruolo dell’esercito sono stati progressivamente erosi da Erdogan, accentuando lo scontro interno la elite urbana, nazionalista e laica, e la nuova borghesia militare, musulmana, moderata e neoliberale, con la prima che accusa la seconda di voler islamizzare il Paese.
Decisiva, nel 2010, la riforma costituzionale confermata dal referendum grazie alla quale Erdogan riuscì a modificata la legislazione turca, permettendo ai tribunali civili di giudicare i militari. Riforma che ha aperto le porte a maxi-processi come “Ergenekon”, nel 2013, che portarono in carcere decine di ufficiali ribelli (molti sarebbero stati assolti). Nel corso di questa notte, la situazione per i golpisti è andata complicandosi: ci sono stati scontri tra i sostenitori di Erdogan – apparso su Facetime mentre invita la popolazione a scendere in piazza – e i militari, che pure all’inizio sembravano sul punto di prendere il potere. I vertici dello stato e i servizi segreti hanno continuato a ripetere per ore di aver sventato il golpe e arrestato gli autori del blitz, fino a quando Erdogan rientra in patria.
Per lunghe ore piene di incertezza si sono rincorse altre news, su morti, feriti, televisioni occupate, social media zittiti, elicotteri dei golpisti abbattuti dai jet dell’aviazione, una sorta di grande faida che secondo diverse fonti coinvolge spezzoni non secondari dell’esercito e della gendarmeria turchi, ostili al presidente. I partiti di opposizione, repubblicani e nazionalisti, ma anche socialdemocratici, insieme ai vertici lealisti delle Forze armate – in particolare il capo di stato maggiore della Marina e quello delle forze speciali, hanno sostenuto il governo in carica, condannando il tentativo di colpo di stato.
Il capo di Stato di maggiore turco, il generale Hulusi Akar, viene liberato da un’operazione delle forze di sicurezza nella base di Akincilar, nei pressi di Ankara. In mattinata, vengono diffuse foto dei militari ribelli che si arrendono, seminudi, nella capitale. Ma è delle ultime ora la notizia che un gruppo di oppositori del governo turco ha preso il controllo di una fregata nella base navale di Golcuk, tenendo in ostaggio il capitano.
Erdogan accusa la “rete gulenista” di aver organizzato il colpo di stato, rete che fa capo appunto all’imam Gulen, in esilio negli Usa, ex alleato di Erdogan poi processato per le accuse di corruzione rivolte in passato al presidente. Descritto come un islamico moderato, Gulen possiede un impero economico (e mediatico) che lo ha reso uno dei rivali storici di Erdogan. Lo stesso Gulen smentisce di aver orchestrato il colpo di stato, mentre il premier turco Yildrim fa sapere che “Il Paese che ospita Gulen non è nostro amico”.
La NATO, che tra i Paesi membri della Allenza conta proprio la Turchia, Obama e Angela Merkel, il presidente del consiglio europeo Tusk e l’alto rappresentante per la politica estera Ue, Mogherino, fanno una serie di dichiarazioni di sostegno “al governo democraticamente eletto” senza citare però direttamente Erdogan. Il “golpe dei colonnelli” sembra fallito. Erdogan sfida i militari “kemalisti”, sa che il colpo di stato è stato una minaccia concreta e che rappresenta un pericolo per la sua sopravvivenza politica: a livello internazionale la sua immagine rischia di uscire a pezzi da questa nottata. Cosa farà adesso? Sarà in grado di scatenare una ritorsione contro i golpisti e completare il suo progetto neo-autoritario di presa del potere? Quali saranno gli effetti economici del tentato golpe su un Paese che cresce al 4% del Pil?
Resta il problema di un Paese strategico per tante questioni dell’agenda internazionale (il conflitto tra Siria e Iraq contro lo Stato islamico, le relazioni con gli altri grandi Paesi dell’area come l’Egitto e Israele, il tema della immigrazione), che non può essere destabilizzato, non può trasformarsi nell’ennesimo “stato fallito”. La strada per sconfiggere Erdogan, dice il rivale Gulen, non è quella che passa dalle armi. Ma stanotte il tentativo c’è stato e non si è trattato di quattro sprovveduti.